di Mariano Longoni
In Italia ogni giorno gli incidenti stradali provocano la morte di dieci persone e il ferimento in modo grave di altre 50. Numeri drammatici, ma comunque in costante diminuzione negli ultimi anni, tanto da essere la metà di quelli registrati 15 anni fa. La legge sull’omicidio stradale, varata mercoledì 2 marzo dal Parlamento dopo un tormentato iter legislativo (ci sono voluti cinque passaggi parlamentari) potrebbe però creare più problemi di quanti ne contribuisca a risolvere. È uno sforzo riformista infettato da dosi massicce di demagogia e populismo. Il primo effetto dell’entrata in vigore delle nuove norme non sarà di sicuro un’ulteriore riduzione degli incidenti: per questo obiettivo, ammesso che ci si arrivi, ci vorrà del tempo. Il primo risultato sarà che almeno 60 persone al giorno rischieranno la galera. E molte di loro ci finiranno veramente. Non si tratterà di delinquenti incalliti ma di persone normali che, per una distrazione o per una colpa anche lieve, hanno causato lesioni gravi a una persona (più di 40 giorni di prognosi). Basta una minima distrazione, l’attraversamento dell’incrocio un secondo dopo che è scattato il rosso, un sorpasso in prossimità delle strisce pedonali, oppure è sufficiente aver assunto un antidolorifico per il mal di denti o seguire una cura farmacologica contro la depressione. Sono tutte aggravanti che fanno scattare sanzioni così alte da rendere la sospensione condizionale della pena, o altri istituti di riduzione della stessa, insufficienti a evitare di mandare dietro le sbarre anche persone incensurate, tranquille madri o padri di famiglia o giovani neopatentati. Decine di famiglie che ogni giorno dovranno affrontare drammi spesso superiori alle loro forze. Ma c’è di più. Oltre alle sanzioni penali, sulle quali normalmente si concentra l’attenzione, la legge sull’omicidio stradale ha introdotto pesantissime misure accessorie come la revoca della patente, che scattano in modo automatico in presenza di un incidente con lesioni gravi. Basta una colpa anche lieve di chi ha provocato l’incidente (mancato rispetto delle distanze di sicurezza, per esempio) per finire in un tritacarne infernale. E non importa se l’incidente è stato causato dal concorso di colpa di chi ha subito il danno. Per prima cosa, infatti, il prefetto, in modo del tutto discrezionale, potrà sospendere la patente di chi ha causato il danno in attesa che venga accertata la sua responsabilità. Se questa viene effettivamente stabilita, magari dopo qualche anno di sospensione, scatta automaticamente la revoca (non impugnabile) della patente da un minimo di cinque anni a un massimo di 30. Il malcapitato in questo periodo non potrà più guidare. Se è un autista professionale o l’automobile gli è necessaria per recarsi al lavoro o per svolgere la sua attività, dovrà cambiare lavoro.
Tutti questi danni collaterali sarebbero anche tollerabili se la loro minaccia avesse l’effetto di ridurre in modo significativo il numero degli incidenti gravi. Ma è lecito dubitarne: un incidente non è mai voluto da chi lo provoca. La paura di sanzioni così severe può indurre una guida più prudente? Forse si, ma non è detto che questo sia sufficiente a ridurre il numero degli incidenti in modo significativo. Non si possono prevedere gli imprevisti, è impossibile ridurre il tasso di errore o di distrazione, i malori, le imperizie. Non facciamoci illusioni: se si vuole portare vicino allo zero il tasso di incidentalità non basta elevare all’ennesima potenza le sanzioni. Bisogna proibire la circolazione stradale.
L’uomo non è una macchina perfetta e i tentativi finora fatti per renderlo tale hanno prodotto risultati disastrosi. Ma il governo potrà appuntarsi sul petto la medaglia di un’altra riforma epocale. In attesa della controriforma. (riproduzione riservata)
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