di Paola Valentini
Come un fiume carsico, è riemerso puntuale nel dibattito politico il tema della flessibilità in uscita. Il governo sarebbe intenzionato a riaprire il cantiere previdenza per permettere ai lavoratori di ritirarsi dal lavoro in anticipo rispetto all’asticella fissata dalla legge Fornero, che sul finire del 2011 ha elevato sensibilmente i requisiti per il pensionamento, senza prevedere una fase transitoria con il risultato di aver creato la categoria degli esodati, già costati più di 10 miliardi di euro.
Certo resta sempre sul tappeto il tema della sostenibilità per le casse dello Stato di un intervento del genere. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Tommaso Nannicini, ha detto che l’operazione potrebbe essere presa in esame nella prossima legge di Stabilità, sottolineando però che il provvedimento potrebbe costare tra i 5 e i 7 miliardi di euro all’anno.
Un fatto è certo: Nannicini ha spiegato che qualsiasi modifica all’attuale impianto dovrebbe prevedere un taglio del trattamento previdenziale, la cui entità dipende dagli anni di anticipo rispetto ai requisiti d’età della pensione di vecchiaia. Che dal 2013, sono agganciati alla speranza di vita e quindi aumentano periodicamente, al pari dei requisiti per la pensione anticipata, per cercare di sterilizzare gli effetti dell’allungamento della vita media della popolazione Le ultime proposte di intervento sono state presentate in un convegno che si è tenuto nei giorni scorsi alla Camera dei Deputati dal titolo «2016: l’anno della flessibilità in uscita.
Opinioni e proposte a confronto», organizzato da Itinerari Previdenziali e Associazione Lavoro & Welfare. Tra gli altri, sono intervenuti il presidente della commissione lavoro della Camera dei Deputati, Cesare Damiano, e il sottosegretario al ministero dell’Economia, Pierpaolo Baretta. Come ha illustrato Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali, per il triennio 2016-2018 i requisiti richiesti per la pensione anticipata sono stati innalzati a 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne; per quanto riguarda la pensione di vecchiaia, invece, i requisiti di accesso al pensionamento sono 66 anni e 7 mesi per gli uomini e per le donne del settore pubblico, 65 anni e 7 mesi per le donne del settore privato, 66 anni e 1 mese per le donne del settore autonomo, con un requisito minimo di contribuzione di almeno 20 anni.
La proposta illustrata nel corso del convegno prevede l’eliminazione dell’indicizzazione dell’anzianità contributiva alla speranza di vita, con possibilità di ridurre il requisito a 41 anni senza penalizzazioni e indipendentemente dall’età anagrafica, e la reintroduzione della flessibilità in uscita dal mercato del lavoro, con la possibilità di andare in pensione con quattro anni di anticipo rispetto all’età di pensionamento vigente, che potrebbe essere inizialmente indirizzata verso i lavoratori precoci, gli esodati, i disoccupati di lunga durata e le donne. «La flessibilità delle pensioni è una misura di modernizzazione del sistema. Consentire ai lavoratori che abbiano 35 anni di contributi di anticipare fino a un massimo di quattro anni il momento della pensione, restituisce alla previdenza quel principio di gradualità che le è stato negato al tempo del governo Monti», ha detto Damiano. «La misura comporta, ovviamente, una penalizzazione che noi proponiamo essere del 2% per ciascun anno di anticipo: l’8% per quattro anni. Riteniamo che in questo modo il costo dell’uscita anticipata possa essere compensato dai risparmi che derivano da un assegno decurtato fintanto che il lavoratore resterà in pensione». Per Baretta «la flessibilità in uscita consente di ottenere un mix generazionale utile alle imprese italiane, poiché permette di gestire processi di riorganizzazione aziendale necessari. L’impianto previdenziale italiano, dalla riforma Dini alla Fornero, non va smontato, è una partita che non siamo in grado di reggere né internamente né con l’Europa».
Proprio per capire l’impatto sui lavoratori, MF-Milano Finanza ha chiesto a Progetica, società di consulenza finanziaria indipendente, di elaborare le stime su queste proposte di flessibilità. Nella prima tabella sono inserite le simulazioni per 30-40-50-60enni dipendenti e autonomi. Accanto alla pensione maturata con gli attuali requisiti vengono stimate due situazioni: una con anticipo di due anni e una con anticipo di quattro, in ipotesi di continuità lavorativa. «Gli effetti complessivi della riduzione sono naturalmente superiori rispettivamente al 4 e all’ 8%, in quanto alla penalizzazione del 2% per ogni anno, vanno sommati altri due effetti: il minor numero di anni di contribuzione, a causa dell’anticipo, e un più basso coefficiente di conversione in rendita, a causa della minore età», spiega Andrea Carbone di Progetica.
Il risultato finale è un assegno inferiore di circa il 10% per chi anticipasse di due anni, e del 20% per chi anticipasse di quattro anni. «Essendo naturalmente una possibilità, e non un obbligo, sarebbe una forma di flessibilità utile per chi volesse liberamente gestire il rapporto tra periodo di vita lavorativa o pensionistica e risorse economiche a disposizione», aggiunge Carbone.
La seconda tabella confronta invece l’attuale requisito di pensione anticipata, per uomini e donne, con il nuovo ipotetico requisito unico dei 41 anni di contribuzione. «L’esito sarebbe un guadagno immediato per tutti, e poi crescente con il passare degli anni. Interrompere l’adeguamento all’aumento della speranza di vita significherebbe aumentare la possibilità di raggiungere un numero di contributi comunque alto, 41, rispetto alle caratteristiche dell’attuale mondo del lavoro: una condizione comunque migliorativa rispetto all’attuale sistema che, per i nuovi lavoratori, richiederebbe 45 anni e oltre di contributi. Entrambe le misure, naturalmente, dovranno rispettare i criteri di sostenibilità e controllo della spesa pubblica pensionistica», conclude Carbone. (riproduzione riservata)
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