L’intervento sulle rendite finanziarie minacciato dal presidente del consiglio Matteo Renzi solleva dubbi di carattere contabile finanziario ed economico. Nella proposta fatta dal premier si paventa un aggravamento della tassazione dei ricavi generati dagli investimenti finanziari dal 20 al 26%. Analogamente dovrebbero essere colpite con un’aliquota simile le plusvalenze da negoziazione, la differenza cioè, se positiva, fra il prezzo di vendita e quello di acquisto quando coinvolgono questi strumenti.
In base a quanto dichiarato dal capo dell’Esecutivo sarebbero esclusi i titoli di stato, che rimarrebbero al 12,50%.
Un ulteriore elemento che aiuta a comprendere il nuovo quadro impositivo che ha in mente l’esecutivo arriva da una risposta del ministro dell’economia e delle finanze a margine della conferenza stampa che ha illustrato le proposte del governo. Pier Carlo Padoan ha allargato i parametri dell’esclusione agli interessi dei conti correnti e dei conti deposito che rimangono quindi al 20%.
La nuova struttura della tassazione dei redditi generati dai risparmi prevedrebbe quindi tre aliquote, 12,50% per i titoli di stato, 20% proventi dei conti correnti e conti deposito, 26% tutto il resto (fondi di investimento, polizze, sicav, azioni, obbligazioni corporate e bancarie, pronti contro termine, valute, materie prime ecc).
E qui già arriva la prima incongruenza economica. La nuova curva delle aliquote tassa in misura più alta gli investimenti più rischiosi legati all’economia reale. I «porti» più sicuri, come i titoli di stato, diventano più convenienti fiscalmente. Un disincentivo alla circolazione della ricchezza e allo sviluppo. L’esatto contrario di quanto si voleva raggiungere.
In realtà con un tweet diffuso nella giornata di venerdì, il portavoce del ministro dell’economia, Roberto Basso, scrive che «tutto ciò che aveva l’imposta al 20% passa al 26%». Quindi anche conti correnti e di deposito. Smentendo così il ministro.
Quando i conti non tornano. Quanto ai dubbi di carattere contabile finanziario, il gettito stimato 2,6 miliardi di euro appare di dubbia riscossione.
La differenziazione del carico fiscale fra le diverse tipologie di investimento, oltre il doppio, finirà per favorire processi di riallocazione delle risorse su investimenti con una pressione fiscale più mite tali per cui la base imponibile preventivata vaporizzerebbe.
Il secondo motivo contabile e finanziario che mette a rischio il gettito è la volatilità del gettito del capital gain molto più marcata rispetto alle altre entrate, come per esempio l’Irap. Questo tipo di imposte sono legate al ciclo di Borsa e all’andamento dei tassi di interesse per cui in una fase di contrazione il gettito verrebbe a mancare. L’Irap essendo legata all’economia reale è molto più stabile. E come se volessimo finanziare per via indiretta la Sanità con i guadagni di Borsa.
Il terzo aspetto che mette a rischio i conti finali è il processo di migrazione dei percettori più consistenti di questa tipologia di reddito, già in atto peraltro da tempo. Il Governo è convinto dell’inasprimento nel tentativo di allineare le imposte a quelle europee. Si deve tener conto però che confrontare solo le aliquote non ha molto senso, va evidentemente analizzata la tassazione complessiva dei risparmi. Se devo stabilire se una persona è più alta di un’altra non guardo solo la lunghezza del viso. L’Italia insieme alla Francia è l’unico paese ad avere una tassa sulle transazioni finanziarie (0,10% sulle azioni) alla quale va aggiunta l’imposta di bollo, una patrimoniale allo 0,20%. E non è finita qui, a partire dalla fine del 2013 va versato l’acconto dell’imposta teorica anche per l’anno successivo ipotizzando analoghi guadagni nel corso degli anni, un assurdo. Gli andamenti dei mercati sono molto variabili e dinamici. La migrazione viene fatta in uno dei paesi con una tassazione del capital gain modesta, molti sono gli esempi che possono essere fatti nell’Est Europa o per esempio prendendo il caso di Malta. Altri paesi, sempre nell’Unione europea, invece hanno dei conti per il risparmio completamente esentasse.
Sempre in tema di confronti va detto che potenzialmente interessate all’inasprimento fiscale sono solo le famiglie perché i redditi finanziari delle imprese finiscono all’interno del conto economico generale e scontano quindi la tassazione del reddito di impresa. Si tratta quindi di un aggravio di tasse a carico soltanto delle famiglie è per un importo consistente più della metà dell’Imu sulla prima casa.
Restano infine da chiarire molti dubbi sugli effetti di una politica economica imperniata sulla progressiva contrazione della ricchezza finanziaria. Uno dei baluardi a difesa della solidità patrimoniale dello stato nei periodi più difficili dello spread è stato proprio il risparmio. La ricchezza finanziaria complessivamente detenuta dagli italiani è pari, secondo fonti Bankitalia, a 3.800 miliardi di euro ai quali va aggiunto il valore corrente degli immobili. Il patrimonio è complessivamente stimato fra gli 8 e i 9 mila miliardi di euro, oltre quattro volte il debito pubblico, una sicurezza per i creditori del sistema Italia.
A pagare sono le imprese. Le imprese infatti per essere competitive con lo stato in termini di raccolta a parità di finanziamento dovrebbero offrire un tasso di interesse superiore almeno il 30% più alto rispetto a quello dello stato. C’è da chiedersi se una parte o tutta l’Irap risparmiata non possa essere bruciata dai maggiori oneri finanziari. I maggiori costi per interessi passivi per le aziende non si manifesteranno solo in sede di raccolta diretta sui mercati ma anche passando attraverso il canale bancario. Le banche potrebbero veder peggiorare i costi di raccolta a medio e lungo termine per effetto di un inasprimento della tassazione. Uno dei prodotti più colpiti sono proprio le obbligazioni bancarie e così a cascata i maggiori oneri potrebbero ricadere sui prestiti alle imprese e alle famiglie. Quando si parla di rendite non si deve infatti immaginare a soldi lasciati in un cassetto di una banca ma in risorse che vengono impiegate all’interno del ciclo economico finanziario e produttivo.
Nella sostanza stiamo pian piano costruendo un cuneo fiscale sui risparmi, la differenza fra quanto un’impresa o una famiglia incassa dal finanziatore per effetto della tassazione. Il cuneo sui risparmi è fra l’altro una amarcord della politica economica italiana anche se in altra forma. Si è cercato dietro suggerimento dell’organizzazione internazionali col tempo di abbatterlo. Arriva un cuneo senza peraltro che quello sul lavoro sia stato significativamente eliminato per la generalità dei lavoratori.
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