Il presidente del cda è sempre responsabile per l’evasione fiscale anche se ha apposto la firma in buona fede su una dichiarazione poi risultata infedele. Rientra fra i suoi obblighi quello di vigilare sull’operato di collaboratori e consulenti fiscali.
Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 10806 del 6 marzo 2014, ha reso definitiva la condanna a carico del presidente del cda di una srl di Genova.
La terza sezione penale non lascia spazio a nessuna tesi della difesa considerando il ricorso manifestamente. Oltretutto, scrivono gli Ermellini, l’argomento difensivo qui svolto è il medesimo già portato all’attenzione della Corte d’appello che vi ha replicato in modo più che congruo. E infatti, la sentenza è accurata e analizza lo stesso motivo osservando che «la persona che assume per libera scelta una carica (in questo caso societaria) che comporta, tra l’altro, l’assolvimento di determinati obblighi di rilevanza pubblicistica, qualora rinunci, in assenza di un giustificato motivo all’esercizio dei poteri di controllo che la carica gli attribuisce», non può ritenersi esonerata dalle responsabilità inerenti all’attività assunta.
Tanto più che, nel caso sottoposto all’esame della Suprema corte, la responsabilità va rintracciata anche dal comportamento dell’imputato di non aver indicato la persona che gli aveva fatto sottoscrivere la dichiarazioni infedele e che lo avrebbe indotto in errore in buona fede. D’altro canto, nota la Cassazione, ragionando diversamente si svuoterebbe di contenuto l’assunzione di una carica come quella di presidente del consiglio di amministrazione tra le quali rientrava, appunto, il compito di presentare la dichiarazioni annuale ai fini Iva (vale a dire, il documento destinato a rappresentare il complesso delle operazioni imponibili e non imponibili compiute dalla società nel periodo interessato e a determinare l’ammontare dell’imposta dovuta.
Anche la Procura generale della Suprema corte ha chiesto al Collegio di legittimità di confermare la condanna.