I giudici usano i seguenti parametri:
a) la natura del fatto falsamente attribuito e/o la gravità delle espressioni utilizzate (per esempio, si accusa qualcuno di gravi delitti così si scredita innanzi alla pubblica opinione la sua persona e la sua attività lavorativa);
b) l’intensità del dolo, cioè della volontà di offendere;
c) i mezzi di comunicazione utilizzati e la diffusività degli stessi sul territorio nazionale o locale; la diffusione anche telematica (per esempio, a mezzo di un sito web o di un archivio online); la particolare destinazione del periodico a un pubblico qualificato (per esempio, di operatori ed esperti finanziari ed economici);
d) lo spazio e il rilievo attribuito dai responsabili al pezzo all’interno della pubblicazione;
e) il ruolo istituzionale ricoperto all’epoca dei fatti e il collegamento tra le notizie diffamatorie e l’esercizio delle pubbliche funzioni proprie della carica;
f) l’eco suscitata dalle notizie, il discredito che ne è derivato e le conseguenze sull’attività professionale e sulla vita della parte lesa;
g) il rilievo presentato dalle notizie diffamanti all’interno dell’articolo;
h) il rilievo attribuito dai responsabili al pezzo contenente le notizie diffamatorie (per esempio, uso di immagini, lunghezza degli articoli, centralità o meno delle offese); la circostanza che sia stato pubblicato un breve trafiletto, un articolo su più colonne, oppure sia stata realizzata una vera e propria campagna stampa (l’estensione della notizia diffamatoria in termini di righe, colonne, pagine pubblicate incide sulla cifra del risarcimento dovuto).
Conta poi anche se sia stata o no chiesta la rettifica, se i fatti riportati nell’articolo erano stati oggetto di pubblicazione anche da parte di altri quotidiani e settimanali, se sia stato consentito alla parte lesa di poter dire la propria versione.