Pubblichiamo l’interessante intervento di Anna Fasoli – socio UEA
Chi si aspetta dalla terra moduli ripetitivi e strutture tradizionali sbaglia e di molto. Tra le imprese agricole del Nord Est, (se mi soffermo su questo spaccato geografico, è perché è quello che meglio conosco, ma analogo discorso può essere esteso al Centro o al Nord Ovest italiani), la parola d’ordine è discontinuità.
Discontinuità organizzativa, certamente, ma anche culturale. Insomma se oggi il settore agroalimentare occupa un ruolo di testa di serie nella classifica economica nazionale e internazionale, lo deve alla straordinaria capacità mostrata di innestare la forza del nuovo su un humus di grandissima tenacia e passione.
I numeri parlano da soli. Vale la pena citarli, attingendo alla recente fotografia scattata da un’accurata indagine condotta da Fondazione Nord Est. Consideriamo questo campione territoriale come piccolo laboratorio di futuro anche per il territorio nazionale.
Ebbene, nell’agroindustria del Nord Est circa un’impresa su quattro è costituita da società di capitali: il 24,2% contro la media italiana di una su cinque, con il 19,3%. All’interno si rileva una strutturazione con accurata divisione di funzioni, propensione all’investimento e alla specificità dei compiti. Con un obiettivo centrale: l’attenzione al cliente. Naturalmente l’occhio è sempre più puntato all’estero: 47,1% delle imprese del Nord Est si è affacciato sui mercati oltre confine, quando la media italiana è del 38,1%. E oltreconfine significa soprattutto UE, anche se la tensione mira con costante aumento anche ai nuovi mercati.
Gestione moderna, con maggiore managerialità e distinzione di funzioni quindi, investimenti e capitalizzazioni, ma anche capacità di saper guardare oltre, di dotarsi della straordinaria dote che è l’immaginazione applicata al concreto, quella che gli inglesi chiamano vision, mix sapiente di pragmatismo, coraggio, ambizione.
L’altra faccia della medaglia
Veniamo ai tasti dolenti. Perché, come in ogni buona storia che si rispetti, anche questa ne ha. Da queste parti fare impresa spesso è essere impresa.
La cronaca purtroppo ultimante lo ha confermato: quando il lavoro diventa una misura dell’uomo, se all’imprenditore vengono meno gli strumenti per esercitare il proprio mestiere, ecco che qualche volta, preso dalla disperazione, si spinge a mettere fine alla sua esistenza anche come uomo. Finanziamenti negati, dunque, porte che si chiudono. Disperazione, che è l’altra faccia – the dark side- della passione. Criticità che si fanno ingestibili, insomma, tra le barriere domestiche.
Sul fronte export, invece, il vero spettro sono le barriere burocratiche complicatissime. L’ultimo esempio, in ordine di tempo, è il veto turco al latte crudo, colpevole di veicolare dall’animale all’uomo la brucellosi. Così dal 1° febbraio è diventata fuorilegge l’importazione per la Turchia di Parmigiano Reggiano, Grana Padano e Provolone Valpadana (anche se in Italia la malattia è quasi scomparsa e la lunga stagionatura protegge dalle brucelle). Fanno da contralto a simili rigidezze, però, le disinvolte pratiche che promettono il Parmesan cinese, il Lambrusco spagnolo, vari Château americani, tutti rei di violare le normative rigidissime per il Dop e il Doc, e che pure spadroneggiano sui mercati globali.
Quegli stessi mercati poi si dimostrano estremamente capricciosi. Se i floridi mercati di Cina, India, Russia e Brasile (i famosi Brics, cui aggiungere la S per il Sudafrica) stanno attivando energie nostrane per impiantare anche là bacini di vendita, è anche vero che sono oggi frontiere estremamente volubili e capricciose, dove i gusti alimentari stanno velocemente cambiando, lo status del cibo italiano si diffonde e si moltiplicano le certificazioni da allegare, i documenti sulla salubrità degli stabilimenti produttivi, le etichettature e i trattamenti al packaging. Così, per esempi, se si vuole esportare in India Cina e Brasile, le casse di legno, gabbie e pallets devono essere trattati e marchiati secondo la normativa Nimp n°15, mentre l’imballo deve venire sottoposto ad uno speciale trattamento antiparassitario. Capirci qualcosa è quasi impossibile!
La sfida comincia da qui
Ma è dall’impossibile che dobbiamo prendere spunto. È l’eccellenza a imporlo. Non si può rimanere inerti di fronte ad un gap così ampio tra possibilità e attuazione.
Un esempio eclatante, che ci coinvolge personalmente, lo ha offerto il settore della meccanica agricola. Pur se l’Italia è leader mondiale per qualità e servizi (il giro d’affari stimato è di 7,5 miliardi di euro), il 2012 si è chiuso con il peggior risultato dal lontano 1980: -17,4% nelle immatricolazioni di trattori, arrivate a 19.343, nonostante il buon risultato delle esportazioni, cresciute tra gennaio e settembre del 15% per i trattori e dell’8% per le altre macchine. Intanto Francia e Germania conoscono incrementi a due cifre.
Qui si apre lo spazio per noi assicuratori, qui deve arrivare la nostra domanda su come valorizzare il settore. Insomma come può l’assicurazione intervenire per dirimere i nodi irrisolti e spalleggiare i produttori, imprenditori, le aziende proiettando l’agroalimentare ancora oltre i propri orizzonti facendolo così giungere, di dritto, in uno spazio economico “puro”, in un’area di libero mercato che travalichi i confini angusti?
Di più: può l’assicurazione svolgere una funzione coordinata per permettere al settore oggi più vivace dell’economia di fare da apripista ad un nuovo concetto economico, restando quanto più possibile indenne dai contraccolpi derivanti da scelte politiche locali? Che ce ne sia un gran bisogno, credo, siamo tutti d’accordo.
Cibo e sogni: la strada è tracciata
Lo abbiamo visto: mai come in questo momento l’eccellenza italiana passa attraverso il cibo. Ma se quel cibo ha tanto potere, è perché capace di nutrire, con la qualità e la storia, anche i sogni.
Cibo e sogni: gli stereotipi italiani fin dagli Anni Cinquanta? Può darsi, ma quello che oggi siamo riusciti a fare, leggendo i numeri del settore, è rendere quei prodotti artigianali dell’immaginario una realtà concreta e tangibile. Come? Con un cibo garantito, controllato nella qualità e nella provenienza – dunque difeso come tale. Come? Confidando nel potere (anche economico) dei sogni, ovvero segni emozionali applicati a un prodotto. In altre parole il made in Italy è divenuto una fabbrica anche dell’immateriale, avendo creato attorno a sé un’atmosfera, un mood emotivamente riconoscibile, che conduce con sé un’esperienza ad ampio raggio, percettiva.
Lo ha fatto, certo, la Ferrari, il cui logo, il Cavallino rampante, è il simbolo più conosciuto a livello planetario (persino superando Apple, Google e Coca-cola), ma lo hanno fatto anche numerosi prodotti agroalimentari, vini, oli, formaggi sul podio. Se è successo, non è stato per caso. Se è successo, è perché sono state orchestrate sapienti strategie scelte dai competitors, fondate sulla convinzione (ormai riscontrabile con le cifre di bilancio) che il valore emozionale di un bene diventa una voce contabile importantissima, ma che questo valore emozionale può esistere solo se si fonda su una base reale di bontà e qualità di un prodotto.
Niente trucchetti marketing Anni Ottanta insomma. Nessuna strategia volta a costruisce l’immagine sul nulla. Invece la strada privilegiata è valorizzare que
lla storia che accompagna un prodotto e che lo fa muovere tra gli scaffali, che lo fa volare da uno Stato all’altro. La storia è parte del prodotto stesso.
Un bel po’ di storia l’abbiamo anche noi assicuratori. Ci aspetta adesso la sfida di farla innestare sulle compagini del nuovo, avvalendoci di quella stessa immaginazione applicata al concreto di cui ho detto, anche se la nostra terra di conquista sarà composta di clausole, carte, contatti e contratti.