Paola Valentini
La battaglia innescata dalla Commissione Ue che vuole vietare le retrocessioni ai collocatori delle commissioni dei prodotti finanziari è solo all’inizio. Si attendono infatti nelle prossime settimane le linee guida di Bruxelles sul divieto degli inducement, parola inglese che si può tradurre con incentivi. In finanza con questo termine si intendono le commissioni che le società di gestione e le assicurazioni versano alle reti che distribuiscono i propri prodotti di investimento, come compenso per l’attività di collocamento svolta, prelevandole dalle spese di gestione che il risparmiatore paga loro ogni anno: solo una parte quindi è trattenuta dal produttore, che provvede a girare la parte restante alla rete (la quale incamera anche le commissioni di sottoscrizione, dove presenti).

In Italia prevale questo meccanismo di remunerazione perché nel Paese sono in minoranza i consulenti indipendenti i quali, invece, si fanno pagare con parcella direttamente dal cliente, come quando si va dall’avvocato, dal commercialista o dal medico. Quest’ultimo infatti prescrive le medicine, che poi il paziente compra autonomamente in farmacia. Allo stesso modo il consulente indipendente consiglia i prodotti finanziari da mettere in portafoglio ed emette fattura per questo servizio, ma poi è l’investitore che decide dove e come comprarli. Qui c’è tutto il tema della scarsa educazione finanziaria che non aiuta certo le famiglie italiane a muoversi agevolmente nel mondo del risparmio, un retaggio di anni in cui l’investimento prevalente era quello in Bot e Btp, e le alternative erano davvero poche. Motivo per cui in Italia si è sviluppato e ben radicato come modello prevalente quello descritto, in cui le società di gestione producono i fondi che poi collocano tramite accordi di distribuzione con banche o reti di consulenti proprie o terze. Un sistema detto ad architettura chiusa, perché banche e consulenti collocano soltanto i fondi di produttori con i quali collaborano. E da questi ricevono una commissione (detta di retrocessione) per la consulenza e la distribuzione prestata proprio perché il risparmiatore non paga la rete direttamente. E spesso ignora che la sta pagando indirettamente, perché tale voce non è in chiaro, essendo compresa all’interno della commissione di gestione: come emerge dall’ultimo rapporto della Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane, solo il 35% degli intervistati è consapevole del fatto che la consulenza è un servizio a pagamento. Il resto, il 65%, lo ignora. Per tutti questi motivi la volontà della Commissione Ue, come rivelato da MF-Milano Finanza del 17 gennaio, di vietare gli inducement stravolgerebbe i modelli di business italiani. Un orientamento emerso nella Retail Investment Strategy, la strategia che l’esecutivo europeo sta elaborando per innalzare il livello di tutela dell’investitore retail partendo dalla constatazione che i consumatori europei non beneficiano a sufficienza dei vantaggi offerti dai mercati dei capitali. E per quanto riguarda gli inducement, Bruxelles afferma che questi possono portare a conflitti di interesse nel momento in cui agli investitori viene consigliato di acquistare prodotti più costosi o che non sempre sono adatti alle loro esigenze. Ad esempio non sono quasi mai suggeriti prodotti a basso costo come gli Exchange Traded Fund, con ricadute sui rendimenti che attesi perché maggiori commissioni riducono la possibilità di realizzare maggiori performance.

Secondo la Commissione i prodotti con le retrocessioni sono in media più cari del 35% per gli investitori retail, assicurando quindi ricche commissioni alle reti di collocamento a fronte di un servizio di consulenza che non sempre è all’altezza delle promesse. Si preannuncia una dura battaglia perché le associazioni di categoria europee hanno criticato lo stop agli incentivi. Ma quale è il loro reale impatto? Uno studio sempre della Consob, che però risale al 2018, analizza la struttura e l’evoluzione del costo dei fondi comuni aperti italiani nel periodo 2012-2016. Dalla ricerca risulta che una fetta molto alta dei costi sostenuti dai sottoscrittori dei fondi comuni va a remunerare gli sportelli bancari e le reti dei consulenti finanziari: circa il 70% delle commissioni riconosciute alle società di gestione del risparmio è infatti assorbito dai costi di distribuzione. La Commissione cinque anni fa auspicava che la nuova disciplina introdotta dal 2019 dalla direttiva Mifid II, che chiedeva maggiore trasparenza nella struttura dei costi, avrebbe potuto determinare una revisione degli attuali modelli distributivi e commissionali. Poco è cambiato, da allora in Italia.

Una conferma arriva dall’analisi realizzata da MF-Milano Finanza sulle retrocessioni medie ai collocatori di un campione di società di gestione (si veda tabella) in base ai prospetti informativi oggi disponibili (sul 2021): ad esempio per il fondo Anima Emergenti la quota delle commissioni di gestione versata al distributore è del 73,6%. Sono tutte superiori al 70% anche le retrocessioni per Eurizon, mentre sono inferiori quelle di Azimut (attorno al 25%), probabilmente perché il gruppo dispone di una rete propria, a differenza di Anima che invece ha soltanto accordi con distributori esterni e quindi deve incentivare maggiormente il collocamento. Come conseguenza l’industria italiana dei fondi resta ultima, ovvero la più cara, nella classifica Morningstar sui costi dei fondi (tabella in pagina). La nuova edizione del report biennale Global investor experience di Morningstar, giunto nel 2021 alla sua settima pubblicazione, valuta le esperienze di investitori in fondi comuni in 26 mercati fra America del nord, Europa, Asia e Africa. La sezione su Commissioni e spese del report si concentra sui costi ricorrenti che un sottoscrittore deve sostenere e li confronta con quelli di altri investitori nel mondo. Lo studio rivela che l’Italia si trova nelle ultime posizioni, insieme a Taiwan, perché gli investitori sono gravati generalmente da commissioni di retrocessione ai distributori e spesso da costi iniziali di sottoscrizione. Le classi di azioni senza costi di retrocessione sono tecnicamente registrate nel Belpaese, ma non facilmente accessibili ai clienti finali perché il sistema di distribuzione è dominato dagli intermediari, in particolare dalle banche, si legge nello studio Morningstar.

«Nei Paesi dove la distribuzione è dominata dalle banche, non ci sono segnali che le forze del mercato da sole riescano a ridurre le spese per gli investitori retail, dice Grant Kennaway, co-autore del report di Morningstar, «questo fenomeno è particolarmente evidente in Italia». Tra i mercati più virtuosi in termini di costi dei fondi ci sono Australia, Paesi Bassi e Stati Uniti per la quarta volta consecutiva. In comune, le tre aree hanno spese correnti non comprensive di commissioni di ingresso, vendita o distribuzione. Per quanto riguarda l’Olanda, la regolamentazione ha avuto un ruolo fondamentale nel migliorare l’esperienza degli investitori in fondi, dal momento che ha vietato le commissioni di retrocessione. Il problema è che in Italia l’ultimo rapporto Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane ricorda che più della metà degli investitori, il 57%, dichiara di non essere disposto a pagare la consulenza. Salvo poi pagarla comunque all’interno della commissione che versa quando investe in prodotti finanziari. Oltre all’indicazione contenuta nei prospetti informativi, che però come si accennava, è un valore medio e non riferito al singolo investitore, per capire qual è l’ammontare esatto che, per il proprio portafoglio, viene retrocesso al distributore un modo c’è. Questo dato è riportato nel rendiconto che ogni intermediario deve mandare ai clienti dal 2019 una volta all’anno, entro il mese di aprile, sul bilancio degli investimenti dell’anno precedente: la voce Pagamenti di terzi ricevuti dall’intermediario indica la quota parte prelevata dalla società prodotto al cliente e poi retrocessa all’intermediario distributore. «Questa quota parte può essere particolarmente elevata e quel che più conta», spiegano da Moneyfarm, «è che la sua applicazione distingue gli intermediari che offrono il servizio di consulenza su base non indipendente da chi invece offre un servizio indipendente e quindi applica un costo pari a zero». (riproduzione riservata)

L’approccio paternalistico crea solo distorsioni
Marco Tofanelli
Si discute sugli incentivi sottostanti la consulenza commission-based (la legittima remunerazione del servizio quindi), ritenendoli eccessivi e non in grado di limitare a sufficienza i possibili conflitti di interesse: su questo presupposto/preconcetto, in sede comunitaria la proposta è addirittura di valutare se vietare il modello di servizio, imponendo esclusivamente quello fee-based. Do per nota la oramai riconosciuta sostanziale equivalenza dei costi medi complessivamente applicati ai clienti retail nei due modelli, e richiamo qui l’attenzione sui presupposti dimenticati necessari ad un drastico intervento legislativo che, in realtà, priverebbe dei benefici della consulenza soprattutto i piccoli investitori, non disposti a pagare una fee dovuta anche nel caso in cui non dovessero compiere alcun investimento (advice gap), dimenticando ancora che l’attuale regolamentazione, nel riconoscere la possibilità di scelta tra le due differenti modalità di prestazione del servizio, ha democratizzato la consulenza, creando valore per la protezione degli investitori (anche piccoli) dai rischi dei mercati e dalle insidie del social investing.

Chiaramente, alla base dell’intera disciplina dei mercati finanziari vi è la profonda e ineliminabile asimmetria informativa che caratterizza l’attività ivi svolta: nei mercati privati quindi, è necessario l’intervento pubblico che evidenzia le specifiche esigenze di tutela del mercato in quanto tale e del suo funzionamento perché le asimmetrie potrebbero, in mancanza di fattori correttivi autoritativamente imposti, renderlo inefficiente. Il mercato quindi deve essere regolamentato: l’allocazione delle risorse nei mercati finanziari è autoritativamente imposta e non è lasciata alla libera contrattazione delle parti, del mercato, proprio perché si vuole che determinate risorse vengano attribuite necessariamente ad una di queste, al consumatore di servizi finanziari.

Ma, in tema, le regole imposte devono essere considerate come meccanismi di allocazione di risorse scarse: l’efficienza della norma deve essere valutata in funzione della capacità di assegnare le risorse massimizzando il benessere dei soggetti che avanzano pretese in conflitto tra loro. Ora, il passaggio da Mifid I a Mifid II ha segnato il superamento della strategia normativa di pura trasparenza, favorendo l’ingresso di forme di protezione più incisive per l’investitore rispetto al mero obbligo di informazione; tale passaggio è derivato da uno sbilanciamento verso approcci di tipo paternalistico che vorrebbero contenere le conseguenze degli errori comportamentali indirizzando le scelte degli investitori nella direzione ritenuta per loro corretta, nel loro (presunto) interesse. Ma la proposta di introdurre un ban assoluto va nella direzione di imporre autoritativamente una scelta, creando una gerarchia tra preferenze, nel presupposto che alcune decisioni di taluni soggetti siano necessariamente imperfette, sicuramente meno perfette di quelle prese da altri e che a questi ultimi (l’investitore) manchi la consapevolezza di tale imperfezione. Come rileva il Beltrametti, nel caso del paternalismo autoritario, un’autorità impone ad un altro soggetto modalità di utilizzo di risorse di proprietà del soggetto medesimo in nome del (reale o presunto) benessere di questo, attraverso limitazioni normative alle opzioni disponibili sul mercato; la desiderabilità di un approccio paternalistico, quale quello autoritario, che addirittura non alloca risorse ma diminuisce opzioni disponibili, è lungi dall’essere reclamata da chicchessia.

Dall’altro lato, come ricorda Rordorf, «la velocità di ricambio delle regole» è «davvero eccessiva». E la continua messa in discussione, autoritativamente imposta, di determinati assetti normativi comporta anche la ridefinizione dei modelli organizzativi e l’assunzione di costi che gli operatori devono sostenere per adeguarvisi: se ciò è doveroso, lo è nel presupposto che risponda alle finalità della disciplina dei mercati finanziari, ossia la funzionalità del mercato e, di seguito, intimamente connessa, la tutela del consumatore. Ecco, credo che la proposta di introdurre il divieto di una modalità di servizio non fallita vada nella direzione non auspicabile di inceppare i meccanismi a detrimento dell’investitore, il cui interesse andrebbe tutelato continuando a garantire la possibilità di scegliere tra due modelli di prestazione del servizio di consulenza. Niente di meno, nulla di più. (riproduzione riservata)

*segretario generale di Assoreti

Arrighi (Kearney): si rischia un boom del fai-da-te
di Marco Capponi
Aprima vista il divieto he si vorrebbe porre alle commissioni di retrocessione è un vantaggio per gli investitori. Tuttavia Massimo Arrighi, partner di Kearney ed ex ad di Banca Fideuram, invita ad ampliare lo sguardo. «In Italia ci sono tantissimi portafogli piccoli che si troverebbero orfani di un servizio che gli intermediari finanziari non avrebbero più convenienza a offrire», spiega. Il risultato? «Il rischio è assistere a una proliferazione del fai-da-te, magari sulle piattaforme di trading». Qualcosa di analogo, spiega l’esperto, è accaduto in Inghilterra, quando intorno al 2010 sono state vietate le retrocessioni di commissioni per i distributori. «Il mercato si è polarizzato: da una parte la clientela upper affluent e private, che ha ricevuto un servizio totalmente indipendente pagato a parcella; dall’altra i clienti piccoli, che si sono riversati sulle piattaforme di trading senza più advisory». Nel mezzo sono rimasti quelli che la Consob inglese, la Fca, ha definito gli orfani: «Clienti con una buona dotazione di patrimonio che non avevano più un servizio perché per gli intermediari finanziari era antieconomico offrirlo, e non avevano neanche banker o promotori a cui rivolgersi, perché il loro numero si era drasticamente ridotto». A quel punto è dovuta intervenire la Fca stessa, che si è mossa in direzione di questa fascia di risparmiatori suggerendo iniziative come «la guidance più leggera dell’advisory, cioè una serie di linee guida su come sviluppare il proprio portafoglio che già all’epoca venivano strutturate dai primi modelli di robo-for-advisor, oggi notevolmente più avanzati».

In pratica le reti distributrici, trovandosi senza un’importante fonti di ricavi, non avrebbero più convenienza a offrire il servizio. Come ovviare al problema? Secondo il partner di Kearney «a logica il modo migliore sarebbe inserire una fee indipendente, una sorta di parcella svincolata dal contenuto del sottostante che viene inserita nei servizi di investimento direttamente dai distributori». Questo è un passaggio fondamentale: «Così si eliminerebbe il possibile conflitto di interessi per il quale un consulente o un banker potrebbe avere maggiore convenienza a vendere un prodotto più costoso: per paradosso, un consulente può anche consigliare di allocare una parte del patrimonio in liquidità, se il contesto di mercato lo richiede senza pregiudicare i propri guadagni». Già oggi esistono sul mercato prodotti, ad esempio linee di gestione patrimoniale, con commissioni che prescindono dalle asset class. «Il modello potrebbe essere espanso ai prodotti pensati per la clientela retail meno facoltosa, a prescindere dall’esistenza o meno di commissioni di retrocessione».

Resta il fatto che i clienti italiani devono fare i conti con costi tra i più alti al mondo (dati Morningstar). «Il problema è che i clienti sono poco consapevoli di quello che pagano», come mostra anche il grafico in pagina (dati Consob). «La concorrenza», prosegue Arrighi, «oggi non si fa sul prezzo, ma solo sul servizio». Per aumentare la concorrenza il partner di Kearney propone di istituire «modelli di consulenza leggera, che si accompagnino anche ai robo-for-advisor. Si potrebbero strutturare servizi per fasce: una base, fatta anche con il supporto dei robot; una intermedia; e una premium, con contratti più costosi ma pieni di contenuti». E poi bisogna lavorare sull’educazione finanziaria. «Per anni», conclude Arrighi, «gli italiani hanno potuto investire in titoli di Stato ad alto rendimento e basso rischio percepito, e a volte questo è stato un alibi per informarsi poco sui prodotti e i loro costi». (riproduzione riservata)
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