Dopo anni di vacche magre il settore bancario potrebbe tornare protagonista a piazza Affari. In questi primi mesi del 2022 la sostanziale tenuta dell’asset quality alla scadenza delle moratorie, il consolidarsi della ripresa economica e il sempre più probabile cambio di rotta della politica monetaria hanno creato il contesto ideale per tornare a investire sul comparto. L’occasione non vale solo per cassettisti e istituzionali a caccia di rendimenti, ma anche per gli istituti stessi che potrebbero finalmente avviare quel processo di consolidamento su cui si specula ormai da tempo. Lo dimostra il rally che il titolo Banco Bpm ha messo a segno venerdì 11, con un rialzo del 9,8% a 3,55 euro. Una fiammata dovuta alle indiscrezioni su una possibile opa da parte di Unicredit che, nella nota diffusa in giornata, non ha certamente sgombrato il campo dalle speculazioni. Non vi è dubbio che il tema terrà banco nel corso del convegno annuale dell’Assiom Forex previsto per sabato 12 a Parma e che aggiornamenti significativi potrebbero emergere nel corso del fine settimana.
Più in generale nell’ultimo mese la gran parte dei titoli bancari italiani ha messo a segno rialzi significativi: Intesa Sanpaolo è salita del 16,4%, Unicredit del 10,12%, Bper del 7,72% e Mps del 12,78%. Il rally ha peraltro permesso a diverse azioni di recuperare i livelli pre-pandemia, chiudendo il gap che si era aperto con i pesanti crolli del 2020. Flessioni che, riducendo pesantemente la capitalizzazione, hanno rischiato di esporre gli istituti a raid ostili.
A far scattare gli acquisti sono stati soprattutto i risultati positivi diffusi nelle scorse settimane che vedono una crescita oltre le attese delle principali voci di conto economico (vedi pezzo a fianco) e un incremento sostenuto del flusso cedolare. L’andamento del dividend yield al 2022 calcolato da Intermonte descrive del resto un quadro incoraggiante per gli investitori: 3,3% per Unicredit (che diventa un 9% di total yield), 5,9% per Intesa Sanpaolo (12%), 5,9% per Banco Bpm (6%), 6,2% per Mediobanca (9%), 3% per Bper (3%), 4,2% per Credem (4%). Dati ancora più rilevanti se si pensa che gli azionisti di molti istituti hanno alle spalle non solo un lungo periodo di carestia legato alle ristrutturazioni degli anni scorsi, ma anche lo stop ai dividendi decretato dalla Vigilanza nel 2020. La finestra insomma è propizia per fare affari. Soprattutto perché il rally potrebbe continuare, rendendo tra qualche mese particolarmente oneroso un investimento sul settore bancario italiano. Tradotto: chi volesse comprare dovrà farlo ora. Sembra del resto essere questa la spiegazione più plausibile di un blitz di Unicredit su Banco Bpm. Dopo la rottura dei negoziati con il Tesoro sulla privatizzazione di Mps, la scelta di una crescita stand alone è stata il messaggio forte che Orcel ha rivolto ai mercati. Su tale messaggio è stata incardinata la comunicazione del piano industriale e dei recenti risultati di bilancio: «le fusioni non sono uno scopo in sé ma un acceleratore del risultato strategico», ha spesso dichiarato il banchiere. Vero è però che, nel frattempo, alcuni elementi di contesto sono mutati. Se nell’estate del 2021 un’azione Unicredit poteva essere concambiata con due azioni Banco Bpm, la scorsa settimana ne servivano ben cinque. Una ragione in più per muoversi rapidamente.
L’operazione del resto avrebbe solidi razionali in quanto rafforzerebbe la presenza di Unicredit in una regione nevralgica come la Lombardia. Non solo. A qualche grande socio del Banco la mossa non dispiacerebbe, a partire dalle fondazioni (con cui il presidente Massimo Tononi intrattiene eccellenti rapporti) e da fondi di investimento come quello guidato da Davide Leone. Innegabile tuttavia che, grazie al lavoro di pulizia e di rilancio fatto sinora dal ceo, Giuseppe Castagna, il Banco (assistito da Lazard e Citi sul lato delle operazioni straordinarie) potrebbe rivelarsi una preda piuttosto costosa per Unicredit. Conti alla mano, qualche analista scommette su un premio superiore al 27% offerto da Intesa Sanpaolo per Ubi e compreso tra il 40 e il 50%. Un target proibitivo insomma? Non è detto, non solo perché il Banco è sprovvisto di un nocciolo di soci in grado di opporsi a eventuali aggressori, ma anche perché Orcel potrebbe avere un approccio dialogante, magari offrendo a Castagna il ruolo di direttore generale di Unicredit dopo l’integrazione.
Ampliando lo spettro di analisi, diversi osservatori ritengono che un blitz su piazza Meda muterebbe in profondità gli equilibri della finanza italiana. In primo luogo il deal potrebbe rafforzare la presenza di Unicredit in Italia e chiudere il gap che negli ultimi anni si è aperto con Intesa Sanpaolo. Secondariamente si consoliderebbe un player in grado di intervenire sull’ultimo dossier problematico del sistema bancario, cioé la privatizzazione del Montepaschi, rimandata ma non derubricata dal governo Draghi. Tanto più che, con l’eccezione del polo Bper-Unipol, non si vedono all’orizzonte candidati alternativi per un’operazione di sistema su Siena. In terzo luogo ci potrebbero essere effetti indiretti sul futuro di Mediobanca e Generali. Ancora oggi l’assalto senza precedenti che Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone hanno dato al Leone lascia aperti molti esiti possibili. Non è chiaro, per esempio, quali saranno gli effetti di un sempre più plausibile scioglimento del patto di consultazione che fino a pochi giorni fa vincolava i due imprenditori e Fondazione Crt. In questo contesto per molti mesi il mercato ha scommesso su un intervento di Unicredit a fianco dei pattisti, in forza soprattutto degli stretti rapporti tra Orcel e Del Vecchio. Un blitz sul Banco e il rafforzamento della partnership strategica tra Unicredit e Allianz sgombrerebbero però definitivamente il campo da questa ipotesi. Il messaggio, infatti, non potrebbe essere più chiaro: se nel futuro di Unicredit ci sarà un deal trasformativo non sarà in Italia e non sarà nella bancassurance. Una notizia che allenterebbe non poco la pressione sul ceo Philippe Donnet. Qualcuno suggerisce perfino che, dopo le frizioni del passato, un’opa sul Banco potrebbe riavvicinare Unicredit e Mediobanca ove mai la merchant bank milanese decidesse di schierarsi come advisor al fianco di Orcel (già ben consigliato, si mormora, da JpMorgan e Morgan Stanley). Una mossa che peraltro non sorprenderebbe alla luce del rapporto di stima che lega il ceo e Alberto Nagel. In ogni caso, quel che è certo è che i prossimi giorni offriranno elementi più concreti per valutare la strategia di Unicredit. (riproduzione riservata)
Qui la sfida è online
Ainizio febbraio due grandi banche italiane hanno annunciato l’ingresso nell’arena delle challenger bank. Il 4 Carlo Messina (Intesa Sanpaolo) ha lanciato Isybank e il giorno prima il Credito Fondiario aveva presentato la sua evoluzione in Banca Cf+, presieduta da Panfilo Tarantelli.
Le challenger bank stanno facendo sempre più concorrenza agli istituti tradizionali nel retail banking. Sono start-up senza sportelli che si rivolgono agli appassionati di tecnologia, ma non solo. «Grazie a un modello orientato a digitale, semplicità, trasparenza e prezzi contenuti, le challenger bank stanno riscuotendo molto successo: aziende di riferimento come le inglesi Revolut, Starling e Monzo e la tedesca N26 nel 2018-2020 hanno quadruplicato la base utenti e accresciuto la propria valutazione di mercato», spiega un’analisi di Value Partners. Nell’era digitale le banche di questa categoria hanno il vantaggio di «sviluppare i prodotti da zero, senza dover fare i conti con l’eredità del passato come molte banche tradizionali», aggiunge Vincent Vinatier, gestore di Axa Framlington. Se è vero che negli ultimi tempi il mercato britannico del digital banking è cresciuto molto, le challenger bank solo online hanno preso slancio anche in altri Paesi europei. Tra queste in Germania c’è N26. In Italia la Fineco Bank della prima ora è certamente stata una challenger bank, anche se poi si è evoluta aprendo uffici e costruendo una rete di consulenti finanziari, fino alla svolta più recente nella gestione del risparmio. Allo stesso tempo alcune aziende cinesi sfruttano la loro supremazia in ambito digitale con big quali Tencent Holdings e Alibaba. Nei prossimi anni è ipotizzabile che negli Stati Uniti emergano nuove challenger bank. Intanto anche alcune multinazionali tecnologiche del calibro di Amazon stanno cercando di allargare la propria offerta ai servizi bancari.
Ma la strada per questi operatori non è in discesa, anzi. «Se le banche di questo tipo offrono soluzioni interessanti per i clienti moderni, sempre più fiduciosi nell’innovazione tecnologica, d’altra parte vanno incontro a una serie di ostacoli», avverte Vinatier. «Quello principale riguarda l’elevato livello di concorrenza da parte delle banche consolidate, che contano su molti clienti poco inclini ad abbandonare la vecchia strada per la nuova. In secondo luogo, fiducia e sicurezza restano dei capisaldi nella mentalità di gran parte dei clienti, specialmente dopo le violazioni della cybersecurity subite da alcune banche tradizionali. Terzo, gli stringenti requisiti normativi sul capitale che si può detenere relativamente ad alcuni asset possono avere implicazioni sulle prospettive di crescita».
Non a caso la performance economica di Monzo, Starling Bank, Revolut e N26 «è in peggioramento negli ultimi anni, tanto da aver richiesto iniziative di efficientamento della base costi, non usuali per i newcomer», spiegano da Value Partners. «Inoltre i clienti delle challenger bank sono restii ad abbandonare la propria banca tradizionale: secondo uno studio di Monzo, solo il 30% dei clienti versa lo stipendio sul conto corrente della challanger».
Resta da capire se le challenger bank riusciranno in futuro a ritagliarsi una quota di mercato rilevante e a «valorizzare adeguatamente il proprio modello di business discontinuo oppure se vinceranno le banche tradizionali capaci di rimanere al passo con i tempi», ragionano gli esperti di Value Partners. «In questo secondo scenario le challenger bank potrebbero essere inglobate dalle banche tradizionali, potenzialmente interessate a valorizzare il loro patrimonio informativo».Certo è che «per le banche retail già affermate sarà essenziale incrementare gli investimenti nelle tecnologie proprietarie per offrire ai clienti soluzioni digitally-friendly, in modo da tenere il passo con i nuovi disruptor», osserva il gestore di Axa Framlington.
Per ora in ogni caso le banche digitali continuano a proliferare grazie al fatto che semplificano le operazioni e sono agili ad adattarsi alla nuova tecnologia, fattori essenziali a fronte a clienti bancari mediamente sempre meno propensi a recarsi in fliale (indagine Hype: il 62% degli intervistati negli ultimi 12 mesi è andato allo sportello al massimo due volte.Non a caso Intesa Sanpaolo ha creato Isybank dopo aver notato che 4 milioni di suoi clienti under-40 anni già prima del Covid non si recava mai in filiale; si tratta di una solida base di correntisti su cui costruire la nuova banca digitale prima che questi si rivolgano a un’altra fintech. «Passiamo da incumbent a sfidante nei confronti del fintech per resistere agli attacchi dei colossi tecnologici», ha spiegato Messina.
Il panorama italiano delle challanger bank si divide in due gruppi: da una parte gli operatori indipendenti, dall’altra gli istituti nati per iniziativa di una banca tradizionale.
Gli operatori indipendenti. Minimo comune denominatore di questo gruppo è il focus su business di nicchia come la cessione del quinto, il factoring, il leasing, i prestiti alle pmi o la gestione dei crediti in sofferenza. Si tratta di business che garantiscono margini maggiori rispetto all’attività bancaria classica, quindi questi istituti raccolgono denaro presso i privati riuscendo a offrire una remunerazione più interessante sui propri conti di deposito (si veda servizio alle pagine 12-13), mentre i conti correnti presentano costi molto bassi non avendo una rete di sportelli da mantenere. Offrendo rendimenti superiori alla media di mercato e costi bassi le challanger bank indipendenti riescono in breve tempo a costruirsi uno zoccolo duro di clientela. Spesso nascono per iniziativa di ex banchieri. E’ il caso ad esempio di Banca Aidexa, nata due anni fa dall’idea di Roberto Nicastro, già direttore generale di Unicredit, e Federico Sforza, ex manager di Nexi. Aidexa si concentra sul credito alle pmi. Il gruppo ha avuto la licenza bancaria a giugno scorso e nel 2021 ha erogato prestiti per 80 milioni di euro e raccolto depositi per 60 milioni. Oggi Aidexa propone uno dei conti di deposito più remunerativi sul mercato con un tasso dell’1% a un anno e si fa carico dell’imposta di bollo dello 0,2% annuo.
Storia simile è quella di Illimity, creata nel 2018 dall’ex amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Corrado Passera nel 2018. Opera nel credito alle pmi e gestione di npl (più recentemente ha creato una sgr) e tramite i servizi di banca digitale offre un conto di deposito (che oggi offre lo 0,6% lordo a 12 mesi e lo 0,9% a 18 mesi) e un conto corrente a zero spese. La banca ha chiuso i nove mesi del 2021 con un utile netto di 46,2 milioni, in crescita del 90% rispetto allo stesso periodo del 2020.
Illimity è anche quotata a Piazza Affari, al pari di Banca Ifis, fondata da Sebastien Egon Fürstenberg e attiva nei crediti deteriorati, e Banca Sistema, sul listino milanese dal 2014, specializzata nel factoring e con una quota del 23% che fa capo ai manager e al ceo Gianluca Garbi.
Opera nel credito alle famiglie e alle imprese Banca Progetto, fondata sette anni fa dal riassetto di Banca Popolare Lecchese da parte del fondo californiano Oaktree e guidata dall’ad Paolo Fiorentino, ex ad di Banca Carige e banchiere di lungo corso nel gruppo Unicredit. Vanno poi citati casi di Vivibanca (cessione del quinto), nata nel 2017 e oggi partecipata da tre banche (Banca Valsabbina, Banca Alpi Marittime e Banca popolare di Bari) e tre gruppi finanziari (Vega, Finandrea e Compagnie Financiere de Saint Exupery Sicav), e di Solution Bank, attiva dal 2018 in scia al rilancio del Credito di Romagna rilevato dal gruppo di Hong Kong Sc Lowy Solution fondato da banchieri ex Deutsche Bank. Solution Bank è specializzata nei finanziamenti alle pmi, comprese quelle che fanno fatica ad accedere ai prestiti tradizionali.
E’ invece leader nella cessione del quinto con una quota stimata del 17% il gruppo Ibl Banca, che di recente ha diversificato anche nelle assicurazioni e nella gestione di crediti in sofferenza. Nel giugno 2021 Ibl Banca ha lanciato ControCorrente, conto corrente digitale e remunerato che prevede anche la possibilità di attivare un vincolo che offre interessi più elevati sulle somme vincolate (ad esempio lo 0,75% a 12 mesi) e consente di scontare il canone. Con ControCorrente, anche senza questa opzione, è possibile maturare interessi fino a 0,30% annuo lordo (il tasso varia a seconda della giacenza media annua). Ed è inoltre in arrivo una promozione che prevede, per nuove aperture dal 14 febbraio al 30 aprile prossimi, fino allo 0,50% annuo lordo per sei mesi in base alla giacenza media annua. Da considerare che nel caso del conto corrente l’imposta di bollo annuale è fissa per giacenze superiori a 5 mila euro (34,2 euro), mentre nel caso del conto deposito è pari allo 0,20% della somma depositata.
Le proposte delle banche tradizionali. Le challenger bank nate da una costola delle big del credito hanno dalla loro un’offerta di servizi finanziari più completa e sicuramente meno concentrata sul conto di deposito ma comunque pensata per l’utilizzo tramite smartphone. Probabilmente sarà così anche la nuova Isybank. E sicuramente lo è Buddy Bank di Unicredit, che permette di avere accesso ai mutui della capogruppo o a servizi di gestione patrimoniale realizzati da Moneyfarm con la consulenza di Blackrock.
La light bank di Bper si chiama invece Dots e con essa il gruppo modenese punta ad avvicinare persone più lontane dall’offerta delle banche tradizionali (Millennials, Generazione Z) e chi pur avendo confidenza con il digitale non necessita di funzionalità di banking evolute.
Ben nota è Widiba di Banca Mps, che ha all’attivo anche mutui a condizioni vantaggiose con spese di perizia tecnica e assicurazioni a carico della banca, senza penali per il rimborso anticipato.
Anche Webank, del Banco Bpm, ha un’offerta articolata che prevede anche il trading e l’investimento in fondi accanto ai mutui. Una struttura simile caratterizza Hello Bank di Bnl-Bnp Paribas, che però è più focalizzata sulla clientela intorno ai 30 anni di età con offerte ad hoc su mutui, conti e prestiti.
Da settembre 2020 Hype, operativa dal 2015, è una joint venture paritetica tra Fabrick del Gruppo Sella e Illimity. In Hype ai servizi classici di conto corrente si sono affiancati negli ultimi mesi prodotti di risparmio e investimento con soglie di accesso a partire da pochi euro, oltre ai mutui di Banca Sella. Ha già conquistato 1,5 milioni di clienti.
Infine va notato che anche una società che fa leva sui consulenti finanziari come Banca Mediolanum ha lanciato nel 2020, in piena pandemia, la startup Flowe per fornire una piattaforma di pagamento e di risparmio ai più giovani, anche under-12, con la possibilità di aprire il conto tramite smartphone utilizzando l’app dedicata. Nel suo primo anno è arrivata a 700 mila clienti con un’età media di 29 anni. (riproduzione riservata)
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