di Alberto Brambilla*
Nel realizzare il 7° Rapporto sul bilancio del sistema previdenziale italiano redatto dal Centro studi e ricerche di Itinerari Previdenziali sui bilanci degli enti previdenziali, era impossibile non riflettere e verificare i contenuti che annualmente l’Istat diffonde in tema di pensioni, un argomento ultra sensibile per tutti i lavoratori di questo mondo e in particolare per quelli italiani.
È ormai sperimentato che queste notizie, se non spiegate, sono delle vere e proprie bombe sociali, tali da condizionare i comportamenti dei cittadini. Ci riferiamo ad affermazioni del tipo: «il 36,3% dei pensionati italiani può contare su un assegno al di sotto dei mille euro lordi, il 12,2% non supera i 500 euro. Un pensionato su quattro (24,7%) si colloca, invece, nella fascia di reddito superiore ai 2.000 euro lordi». Oppure: «l’ampia disuguaglianza di reddito tra i pensionati: al quinto degli italiani con redditi pensionistici più alti va il 42,4% della spesa complessiva». Sono affermazioni che vanno spiegate e inserite nel giusto contesto per non fomentare rabbia (a volte ingiustificata e vedremo perché), senso di sfiducia nei giovani (se le pensioni sono così basse oggi, perché dobbiamo versare i contributi quando a noi la rendita non la daranno mai!) e spinta a lavorare in nero. Tanto la pensione è bassa e comunque fino a circa 500 euro al mese ci pensa lo Stato: perché versare?
I veri numeri
Nell’analizzare le pensioni per classi di importo (1 volta il minimo cioè 513 euro al mese per 13 mesi; 2 volte il minimo, 1.026 euro, e così via) e tipologia (argomento non dichiarato dall’Istituto), le cose sono un po’ diverse dalla narrazione fatta sopra. Semmai — anche se dirlo è impopolare — la situazione è più sfavorevole per le pensioni medie e medio alte che da tempo hanno le prestazioni non indicizzate all’inflazione e che oltre i 100 mila euro sono state «tagliate» senza un metodo scientifico. Proviamo a spiegarlo in modo matematico.
Su 16 milioni di pensionati circa la metà è totalmente o parzialmente assistita dallo Stato quindi da tutti noi attraverso le tasse che paghiamo. Circa 800 mila pensionati (il 5,12%) usufruiscono della pensione o assegno sociale.
Che cosa vuol dire? Che fino a 66 anni sono stati sconosciuti al fisco nel senso che non hanno mai pagato nè contributi sociali e neppure le imposte dirette. Poi si sono palesati richiedendo l’assegno mensile in assenza di redditi. Uno Stato di diritto aiuta i più deboli, ma in altri Paesi europei dopo una certa età (33/36 anni) si chiede al soggetto sconosciuto di che cosa vive, prendendo i relativi provvedimenti come succede in Svizzera e Germania. Da noi no. E così senza fare troppe domande, a presentazione di un Isee che può essere discutibili, paghiamo a piè di lista, senza discutere e anzi, qualcuno propone pure di aumentarle queste prestazioni assistenziali a danno delle pensioni più alte.
L’integrazione
Ci sono poi altri 2,9 milioni di pensionati (18,2%) che beneficiano dell’integrazione al minimo (513 euro al mese); questi ex lavoratori sono stati parzialmente sconosciuti al fisco in quanto in 67 anni di vita non sono riusciti nemmeno a versare 15/17 anni di contribuzione. Che hanno fatto nei trent’anni precedenti? Anche qui nessuna domanda; Isee e pagamento a piè di lista. Poi ci sono circa 800 mila altri pensionati (5%) che sono in una situazione uguale a quella precedente ma che per legge prendono la «maggiorazione sociale» di 630 euro mese per 13 mesi; anche qui stesso discorso: pagamento a domanda. Siamo arrivati al 28,3% dei pensionati che — come si sarà capito — non hanno subito una ingiustizia sociale, ma beneficiano di un sussidio, perché per 66 anni di vita non hanno pagato tasse e contributi.
Poi abbiamo circa 160 mila pensioni di guerra (1%), relative al conflitto finito nel 1945. Ovviamente sono basse anche perché molte sono a beneficio dei superstiti. A buona parte di questi pensionati, circa 2,4 milioni, in prevalenza donne, viene erogata la cosiddetta 14° mensilità che, assieme ad altre prestazioni assistenziali, aumenta un pochino le pensioni di cui sopra.
Infine ci sono 2.743.988 prestazioni di invalidità civile (17%) di cui 582.730 che hanno solo la pensione di invalidità, 1.764.164 con la sola indennità di accompagnamento e 397.094 percettori di entrambe le prestazioni, che si sommano ai circa 1,158 milioni di invalidi previdenziali Inps (7,2%) e alle 716 mila prestazioni Inail per le inabilità o invalidità da infortuni sul lavoro. Sono tutte pensioni modeste anche se spesso integrate con l’indennità di accompagnamento per i non autosufficienti: totale generale delle pensioni sotto i mille euro, 53%.
Altri conteggi
L’Istat dovrebbe anche spiegare ai cittadini che per circa 8 milioni di pensionati su 16 milioni non ci sono pensioni ma benefici assistenziali sui quali non gravano imposte. L’Irpef, circa 50 miliardi, grava sul 40% di pensionati che prendono più di 1.200 euro al mese e soprattutto su quel 24,7% di ex lavoratori con prestazioni da 2 mila euro in su; cioè sulle pensioni vere, pagate con contributi e tasse da chi le percepisce. Poiché, come spiega il 7° Rapporto di Itinerari Previdenziali, sono in pagamento circa 23 milioni di prestazioni per 16 milioni di pensionati, significa che ogni pensionato prende 1,42 prestazioni e che l’importo medio è pari a oltre 18 mila euro l’anno; un bello stipendio che se spiegato correttamente incentiverebbe i giovani a credere nel nostro sistema previdenziale che, al netto dell’assistenza, è sano.
Se poi escludiamo le pensioni assistenziali, l’importo medio delle pensioni vere passa a 25.590,43 euro annui lordi. Identiche considerazioni per le donne; è vero che hanno redditi mediamente più bassi (non solo in Italia per la verità) ma se consideriamo che l’80% delle pensioni di reversibilità è rosa, sapendo che nel migliore dei casi l’importo di queste prestazioni è il 60% della pensione originaria, la media non può che essere più bassa.
Detti così i numeri sono gli stessi ma il senso è profondamente diverso. Un pensiero a spiegarli meglio sarebbe utile.
*Itinerari previdenziali
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