Più o meno zero virgola. Per il prodotto interno lordo italiano il 21° secolo non è mai iniziato. Dal 2000 a oggi l’economia dell’Italia è cresciuta 0,2% medio annuo contro il 2% dei decenni ‘80 e ‘90 e il 4,8% degli anni ‘60 e ‘70. L’ultimo ventennio non è stato ruggente per nessuna delle economie dell’Eurozona, è vero, ma Roma spicca in negativo. Fra 2000 e 2018 la Germania è cresciuta del 26,5%, la Francia del 25,2%, la Spagna del 34,7% e la zona euro del 29,7%. Nello stesso arco di tempo l’incremento del pil italiano in termini reali è stato di un misero 4%. E gli ultimi dati – che evidenziano addirittura una contrazione tendenziale dello 0,3% fra ottobre e dicembre 2019 – non lasciano presagire un recupero nel breve periodo, anche perché le condizioni macroeconomiche e geopolitiche paiono in via di peggioramento.
Rintracciare le origini della grande stagnazione italiana è esercizio complesso e, in larga parte, arbitrario. Cause e conseguenze della frenata spesso si confondono, rendendo arduo il compito di chi, politica e classe dirigente, è deputato a individuare soluzioni per la ripartenza. La coincidenza temporale fra introduzione dell’euro in Italia e stagnazione economica del Paese è considerata dalla gran parte degli studiosi una correlazione spuria, un rapporto privo di nesso causale. È pur vero che l’avvento della moneta unica, eliminando lo strumento della svalutazione competitiva, ha messo a nudo alcune debolezze strutturali del sistema economico italiano. Prima fra tutte lo sciopero degli investimenti da parte tanto del pubblico quanto del privato, motivato fra l’altro da debito statale, incertezza politica e invecchiamento demografico. Le scarse risorse destinata all’innovazione non hanno permesso al Paese di agganciare le tendenze in atto nell’industria, a cominciare dalla digitalizzazione. Gli indici dell’arretratezza tecnologica delle imprese italiane sono innumerevoli. Stando al censimento delle imprese 2019 dell’Istat, per esempio, solo un’impresa su 10 effettua vendite online per un fatturato totale di 44 miliardi di euro. La globalizzazione, poi, si è dimostrata un’arma a doppio taglio. Da un lato, l’aumento degli scambi commerciali ha permesso una moderata crescita del pil, compensando con l’export la debolezza della domanda interna. Dall’altro, però, il cosmopolitismo del capitale ha agevolato la delocalizzazione delle fabbriche, mettendo fuori gioco le piccole e medie imprese specializzate in produzioni a basso valore aggiunto e non in grado di far fronte agli investimenti necessari per innovare. Perso il treno della rivoluzione tecnologica, la transizione verde che pare alle porte offre all’Italia un’occasione di mettersi all’avanguardia di un nuovo ciclo economico. Per farlo però il Paese dovrà risolvere i suoi dualismi, alcuni dei quali sono elencati sotto. (riproduzione riservata)
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