Uno degli aspetti della sentenza della Corte d’appello di Torino sul nesso tumore-cellulare
A supporto della tesi il criterio del «più probabile che non»
Pagina a cura di Antonio Ciccia Messina
In causa la perizia indipendente conta di più. Così, sulla base della letteratura scientifica, non in possibile conflitto di interessi, si può arrivare a motivare una sentenza di condanna a indennizzare come professionale il tumore patito da un lavoratore per esposizione eccessiva al telefono cellulare. È quanto afferma la sentenza della Corte di appello di Torino, 904/2019 del 3/12/2019 pubblicata il 13/1/2020 (si veda ItaliaOggi del 15/1/2020).
Il caso della Corte piemontese (legame tra tumore e cellulare) è il primo nella storia giudiziaria mondiale ad aver avuto due sentenze di merito consecutive favorevoli per il lavoratore.
L’effetto della sentenza va al di là della singola vicenda, considerato che più di 100 milioni di cellulari vengono utilizzati ogni giorno in Italia.
La Corte di appello torinese ha accertato che il tumore al cervello, nel dettaglio il neurinoma dell’acustico (un tumore benigno, che può comunque indurre sordità dal lato in cui insorge), è stato causato, nel caso specifico, dall’uso del cellulare per scopi di lavoro. Nel caso specifico un lavoratore ha fatto causa all’Inail per vedersi riconosciute le provvidenze a causa di una malattia professionale (neurinoma dell’acustico) per l’uso abnorme di telefoni cellulari nel periodo in cui era alle dipendenze di Telecom. Le sentenze hanno riconosciuto il 23% di invalidità.
Il problema, nel caso piemontese, deriva dal fatto che si tratta di una malattia professionale «non tabellata ed eziologia multifattoriale» (ossia la cui manifestazione potrebbe essere stata concausata): altrimenti detto, siamo nel campo dell’opinabilità delle cause della patologia, che non è unanimemente censita come malattia derivante dall’attività lavorativa. E qui entrano in gioco i periti e il conflitto tra letteratura scientifica indipendente e studi finanziati dalle stesse ditte produttrici di cellulari. Secondo la Corte piemontese esiste una legge scientifica di copertura che supporta l’affermazione del nesso causale secondo criteri probabilistici «più probabile che non».
I dati epidemiologici, i risultati delle sperimentazioni sugli animali (non contraddetti, allo stato, da altre sperimentazioni dello stesso tipo), la durata e l’intensità dell’esposizione, si rimarca nella pronuncia, assumono particolare rilievo considerata l’accertata, a livello scientifico, relazione dose-risposta tra esposizione a radiofrequenze da telefono cellulare e rischio di neurinoma dell’acustico, unitamente alla mancanza di un altro fattore che possa avere cagionato la patologia. Per arrivare alla decisione la Corte di appello si è basata su una serie di argomenti. Il primo riguarda le sperimentazioni sugli animali da cui è emerso un «rischio di sviluppare tumori di quasi 3 volte nei soggetti esposti, rispetto ai non esposti nella classe più alta di esposizione e cioè di utilizzo complessivo superiore mezz’ora al giorno per 8 anni». Altro dato utilizzato è quello dell’esposizione lavorativa.
Nella sentenza in commento si dà atto di una esposizione a radiofrequenze molto elevata, quantificata in circa 4 ore al giorno per circa 210 giorni lavorativi.
A proposito dell’episodio specifico la Corte di appello ha constatato che all’epoca dei fatti non esistevano strumenti che consentissero di evitare il contatto diretto del telefono cellulare con il viso, come cuffiette o auricolari. La sentenza, poi, tiene conto del fatto che il 76% dei telefoni cellulari esaminati emette radiofrequenze superiori al limite massimo raccomandato dall’Icnirp (Commissione Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni Non Ionizzanti), per esposizione di testa e tronco. Nota la pronuncia in commento che il trend della patologia mostra un aumento, in coincidenza con la diffusione della telefonia cellulare, di detta malattia nel corso degli ultimi decenni.
© Riproduzione riservata
Fonte: