I fondi pensione sono andati molto bene nel 2019, recuperando abbondantemente la défaillance del 2018. Ma i problemi della previdenza complementare in Italia restano da risolvere, a partire da quello dell’inclusione dei giovani e delle donne, come dice il presidente della Covip, l’autorità di vigilanza, Mario Padula, in questa intervista. Dove anticipa novità per quest’anno, la più importante delle quali potrebbe essere la possibilità per i lavoratori di fare l’iscrizione ai fondi pensione non più solo per via cartacea, ma finalmente online. Altre potrebbero arrivare con la riforma delle pensioni in discussione tra governo e sindacati, anche se Padula anticipa la sua contrarietà al fondo complementare Inps per i giovani proposto dal presidente Pasquale Tridico.
Quanto hanno reso i fondi pensione nel 2019?
«Il 2019 è andato molto bene. I rendimenti sono stati del 7,2% per i fondi negoziali, dell’8,3% per gli aperti, del 12,2% per i Pip unit linked. Il Tfr ha invece reso l’1,5%. Ma la previdenza integrativa va valutata sul lungo periodo. Negli ultimi dieci anni i fondi negoziali hanno reso il 3,6% l’anno, gli aperti il 3,8% e così i Pip unit linked mentre il Tfr il 2%».
Il 2020 come si prospetta, anche alla luce delle conseguenze dell’epidemia da coronavirus?
«La Covip non fa previsioni. Dipenderà dall’andamento dei mercati internazionali sui quali i fondi pensione investono. E sui quali pesano le prospettive di crescita dell’economia globale».
Siamo in una fase prolungata di tassi bassi, addirittura negativi. Questo peserà alla lunga sui rendimenti?
«I fondi pensione funzionano, tranne alcuni casi, a capitalizzazione con la contribuzione definita. Quindi, a differenza dei sistemi a ripartizione e prestazione definita, per esempio ancora molto presenti in Germania e nei Paesi Bassi, tassi bassi non generano un problema di sostenibilità. Ma hanno comunque ripercussioni sulla capitalizzazione dei montanti contributivi e quindi sulle stesse prestazioni. In ogni caso, i fondi investono in un ampio ventaglio di asset, anche di tipo illiquido, proprio alla ricerca di rendimenti più elevati. In Italia ci sono iniziative in corso sul fronte del private equity che aumenteranno l’esposizione dei fondi a questo tipo di asset, ad oggi molto limitata».
A proposito di investimenti, solo una piccola parte restano in Italia. Una fuga di capitali che impoverisce l’economia…
«Su 167 miliardi gestiti dai fondi sono circa 33 quelli investiti in Italia.Questo per vari motivi. L’economia italiana dipende ancora fortemente dal sistema bancario; le nostre imprese sono di dimensione piccola e piccolissima e prevale in esse il modello familiare. Dobbiamo però allargare il discorso al sistema nel suo complesso».
Che cosa vuole dire?
«Che il primo pilastro, quello pubblico Inps, dipende al 100% dall’andamento dell’economia italiana. In questo senso, la forte componente di investimenti all’estero da parte dei fondi integrativi è un elemento di diversificazione del rischio. Del resto, i fondi non possono prescindere dalla ricerca di un rendimento adeguato sui mercati internazionali, in una logica di gestione sana e prudente».
Di recente, la Cassa depositi e prestiti, la più rilevante istituzione finanziaria pubblica, ha annunciato intese con fondi di categoria proprio in direzione degli investimenti nell’economia reale. Quanta politica e quanto mercato c’è in simili iniziative?
«L’apertura delle imprese al capitale esterno è di per sé positiva e l’investimento in attività illiquide va letto nella prospettiva della diversificazione dei portafogli. Assistiamo dunque a passaggi positivi, sempre che tutti i protagonisti abbiano ben chiaro che fondi e casse non possono né debbono risolvere situazioni contingenti di tensione di liquidità nelle imprese».
La trattativa fra governo e sindacati sulle pensioni prevede anche un tavolo sulla previdenza complementare. La Covip ci sarà e con quali proposte?
«Per noi è importante quella che chiamo l’inclusione previdenziale. Per superare quei dualismi che si manifestano anche in altri settori dell’economia italiana. Si tratta così di affrontare il tema della più bassa adesione ai fondi che si riscontra tra le donne, i giovani, tra i lavoratori delle piccole imprese e nel Mezzogiorno. In questo modo pensiamo che si possa svolgere al meglio un ruolo di tutela del risparmio e dei “clienti” dei fondi che è poi la funzione principale di Covip».
Come?
«Una prima risposta deve venire dalla maggiore inclusione di queste stesse categorie nel mercato del lavoro. Anche per garantire la sostenibilità sociale del sistema nel suo complesso. Poi si possono fare interventi più specifici sulla previdenza complementare. Per esempio: un uso più flessibile della deducibilità dei contributi fino a 5.164 euro, immaginando che lo sconto fiscale non utilizzato o utilizzato solo in parte in un anno possa essere recuperato in altri anni, così da aiutare chi ha carriere discontinue. Altro esempio: consentire di devolvere nel fondo anche solo una parte del Tfr , anziché tutto, cosa che oggi si può fare solo se lo prevede il contratto collettivo di lavoro. Infine, c’è un tema che riguarda l’implementazione digitale del settore».
Che significa?
«Che, per esempio, deve essere possibile, in particolare per i fondi negoziali, aderire non solo in forma cartacea ma anche online. La Covip spingerà il sistema a farlo. Iorp II, la più recente direttiva europea sul settore, ci aiuta ad andare in questa direzione. È importante, in particolare, per i riflessi che può avere sulle adesioni nelle piccole imprese, dove il Tfr di chi non aderisce ai fondi resta in azienda. Qui se il datore di lavoro interloquisse direttamente col fondo, ci potrebbe essere un aumento delle adesioni alla previdenza complementare».
Nel dibattito sulla riforma della previdenza si è inserito il presidente dell’Inps con la proposta di un fondo complementare pubblico per i giovani. Che ne pensa?
«Che introdurrebbe elementi di instabilità perché si indebolirebbe la divisione tra primo, secondo e terzo pilastro, con conseguenze negative sul peso della previdenza pubblica sui conti dello Stato. Che aumenterebbe l’esposizione dei portafogli pensionistici degli italiani all’andamento del economia italiana. Che avrebbe una collocazione incerta (pilastro 1,5?) nell’edificio regolatorio italiano, che ha fondamenta europee. Inoltre, si rischierebbe di far confusione sulla mission dei fondi pensione, che è quella di trasformare i contributi in prestazioni, per via della governance pubblica-politica che pare prefigurarsi per questo fondo pubblico. Infine, l’Inps non fa gestione finanziaria dei contributi, non è il suo mestiere. Complessivamente, vedo quindi più rischi che opportunità. E osservo che nel mondo la tendenza è opposta: spostare il peso della previdenza dal primo al secondo pilastro».
La Covip si occupa anche dei portafogli delle Casse professionali. Come sta questo settore?
«È troppo frammentato. E dovrebbe diversificare meglio i rischi. Invece ci sono diverse casse con portafogli in cui perdura un peso eccessivo dell’immobiliare, con l’aggravante che le casse sono gli unici investitori istituzionali sprovvisti di una regolamentazione degli investimenti. È un problema di cui si discute da anni, che è urgente risolvere».
Il regolamento interministeriale è fermo da 9 anni. Come si spiega?
«Ci sono molte resistenze, anche ti tipo politico. Ma nel 2020 le casse non possono più pensare di essere legibus solutus rispetto a un’attività delicata come quella degli investimenti. Perché sì, è vero che le casse sono enti privatizzati, ma svolgono le funzioni del primo pilastro previdenziale e quindi non possono sottrarsi alla regolamentazione. Non so più come dirlo».
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