di Daniele Cirioli
Il coronavirus «infetta» il lavoro domestico. Fa scattare sulle famiglie, infatti, la responsabilità di ambienti di lavoro salubri per colf e badanti, nonché l’obbligo d’informazione di eventuali rischi relativi a particolari agenti chimici, fisici e biologici (come il virus Covid-19). A stabilirlo è l’art. 27 del Ccnl lavoro domestico (l’obbligo, di fatto, è scattato con l’emergenza del nuovo virus). Due, inoltre, i problemi ricorrenti per le famiglie: la paura di essere contagiati dalla colf rientrata dall’estero e (al contrario) la tata che scappa via per paura del contagio. Ieri, intanto, è arrivato un nuovo dpcm che stabilisce che il lavoro agile «in via automatica» si può praticare solamente nelle regioni Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Veneto e Liguria e fino al prossimo 15 marzo.
Smart working più facile? L’apparente semplificazione è proposta come palliativo al blocco totale delle attività di lavoro che rappresenta una delle misure obbligatorie per i comuni o aree interessate al fenomeno del coronavirus (si veda ItaliaOggi di ieri). Il dpcm liberalizza l’utilizzo del lavoro agile stabilendo l’applicabilità «in via automatica a ogni rapporto di lavoro subordinato anche in assenza degli accordi individuali». L’operazione sembra introdurre più problemi che soluzioni, proprio con l’eliminazione della necessità del preventivo accordo che getta in una sorta di limbo giuridico sia il datore di lavoro che il lavoratore (può il datore di lavoro imporre o il lavoratore può pretendere che si lavori da casa?; e se uno dei due è contrario o si rifiuta?). Per avere meno problemi resta l’alternativa del telelavoro: anch’esso una modalità di svolgimento del lavoro fuori dall’azienda nell’ambito di un contratto di lavoro dipendente, disciplinato dai Ccnl in base all’accordo interconfederale 2004. Il telelavoro consente di lavorare da casa collegandosi all’azienda da remoto con un pc (o altri strumenti). Lo smart working, invece, consente di svolgere l’attività dove pare: a casa, mare, per strada (la differenza, quindi, è che nel telelavoro la postazione è fissa e predeterminata). Nel telelavoro, inoltre, l’orario di lavoro è predefinito, nello smart working il lavoratore non ha precisi vincoli.
La gestione di colf e badanti. I domestici sono, per lo più, lavoratori di origine straniera, come tali più propensi a muoversi fuori dai confini nazionali. Il rientro in famiglia può mettere giustamente in allerta sul rischio contagio, tanto più se destinati ad accudire familiari di una certa età (per i quali il coronavirus è più pericoloso). In questi casi, la famiglia può ricorrere alla c.d. «sospensione di lavoro extraferiale», ex art. 19 del Ccnl. «Per esigenze del datore di lavoro», stabilisce la norma, è possibile disporre una sospensione del lavoro per un prefissato periodo (possono essere le canoniche due settimane di quarantena), ferma restando la corresponsione della retribuzione. Una sorta di ferie forzate, dunque, con cui il domestico è messo a riposo a spese della famiglia, che in questo modo, però, a torto o a ragione, riduce la propria preoccupazione. L’altro «caso strano» è la tata che scappa via per paura di contagio. La situazione si può facilmente risolvere con il licenziamento, ma resta il problema di trovare chi la sostituisce.
La sicurezza dei domestici. Più importante appare il problema della sicurezza dei lavoratori domestici. Ai sensi dell’art. 27 del Ccnl, infatti, i domestici hanno «diritto a un ambiente di lavoro sicuro e salubre», salubrità su cui, evidentemente, implica negativamente il coronavirus. Inoltre, sempre l’art. 27 stabilisce l’obbligo per il datore di lavoro di informare il lavoratore circa eventuali rischi esistenti nell’ambiente di lavoro relativi (…) a particolari agenti chimici, fisici e biologici. Tale obbligo è da ritenersi sicuramente scattato, con l’avvio dell’emergenza coronavirus. Meno chiari sono gli orizzonti verso i quali la situazione può svilupparsi: dell’eventuale contagio, chi può escludere che la colf non faccia causa alla famiglia?
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