Dietro la mancata conferma del vicedirettore generale Signorini. Nel governo c’è chi vuole limitare autonomia e indipendenza dell’istituto centrale. E nella stessa direzione sembra andare il temporeggiamento sulle nomine Ivass. Il pallino nelle mani di Mattarella
di Angelo De Mattia
Ieri è scaduto il mandato del vicedirettore generale della Banca d’Italia Luigi Federico Signorini senza che per ora sia stato rinnovato per altri sei anni. Gli sviluppi della vicenda dimostrano che si è voluto preordinatamente creare il casus belli per attaccare l’autonomia e l’indipendenza dell’istituto. Le notizie sulla predisposizione all’interno della maggioranza di un dossier sulle posizioni espresse da Signorini in una serie di audizioni parlamentari, se confermate, sarebbero gravissime e chiarirebbero le ragioni dell’attacco anche a chi non le vuole vedere. Sarebbero infatti incriminati concetti espressi da Signorini che sono potuti sembrare una critica al governo nel corso delle sue testimonianze in Parlamento, per esempio sul Def o sulla legge di bilancio, svolte sulla base di testi che non rappresentano peraltro solo la sua posizione ma quella dell’intera Bankitalia. Una reazione partitica per la libera espressione del pensiero di un’istituzione ha un chiaro sapore oscurantista e dimostra che si vorrebbe un istituto centrale addomesticato dal governo, privo di autonomia intellettuale, istituzionale e funzionale. Il disegno dimostrerebbe l’insofferenza nei confronti dei poteri neutri di garanzia e la voglia di ridurli a una posizione ancillare.
Ma, come dovrebbe accadere nei momenti di gravi tensioni politico-istituzionali, bisognerebbe valutare il casus alla luce delle norme che regolano la materia. Il potere di nomina e conferma dei vicedirettori generali e del direttore generale è di competenza del Consiglio Superiore. La delibera di quest’ultimo, che per Signorini ha deciso positivamente il 16 gennaio, è perfetta; manca solo l’atto di approvazione del capo dello Stato con un proprio decreto. Nell’iter esterno il Consiglio dei ministri è chiamato solo a rendere un parere, su iniziativa del premier e del ministro dell’Economia. Perciò non può sbarrare la strada non decidendo, così come sta accadendo, e bloccando un procedimento che vede nel presidente della Repubblica colui che ha il potere di approvare la nomina. Se non si torna alla legge e se si induce a pensare a un altro caso verificatosi nel primo governo Berlusconi, quando questi temporeggiò a lungo nel portare al Consiglio dei ministri la nomina di Vincenzo Desario a direttore generale ma poi finì con il cedere, è ovvio ribadire il convincimento che si pensa a ben altro, incluse le scadenze a maggio dei mandati di altri due membri del direttorio, ossia il vicedirettore generale Valeria Sannucci e il direttore generale Salvatore Rossi. Il tutto nell’ambito di un’aspettativa di una banca addomesticata. Tale non è stata mai, neppure durante il fascismo.
Non ci si lasci fuorviare dalle ritornanti critiche sull’esercizio della funzione di Vigilanza. Si continua a trascurare l’enorme peso che la crisi dell’economia reale ha avuto sulle banche: nessun istituto può essere indenne da perdite, quando si è in recessione o in una straordinaria stagflazione. È facile, trascurando questo dato, accusare il Vigilante. È difficile, in effetti, prevenire i casi di mala gestio. Chi pensa a una Vigilanza come la somma di poteri di Polizia, Guardia di Finanza e magistratura è fuori strada. L’esistenza di codici e controlli non elimina i ladri né previene reati di diverso tipo. D’altro canto, gli illeciti verificatisi in alcuni istituti sono stati snidati proprio dalla Vigilanza, che, non lo si dimentichi, ora è passata in larga parte alla competenza della Bce. Come in tutte le attività umane, si possono commettere errori, ma non si possono inferire da ciò giudizi sconsiderati e immotivati trascurando tutta la parte nettamente positiva che l’azione di supervisione ha svolto.
Nei lavori della commissione parlamentare di inchiesta sulle banche varata nello scorcio della passata legislatura, aperti con l’intento di qualche partito di mettere sotto accusa la Banca d’Italia, l’intervento del governatore Ignazio Visco non ebbe alcuna seria obiezione, tanto che molti parlarono di un boomerang per i presunti accusatori. Ora ci si appresta a istituire una nuova commissione di inchiesta, il cui presidente designato con un linguaggio da questurino improvvisato ha detto elegantemente che farà «cantare» i responsabili della Banca d’Italia, i quali saranno a auditi per primi. Se a tutto ciò si aggiunge lo strampalato tentativo di trasferire al Tesoro la proprietà delle riserve auree della Banca d’Italia, trasformandola in una mera depositaria con un procedimento che sarebbe di espropriazione, la strategia di attacco appare ancora più chiara.
Nel frattempo giovedì scadrà la prorogatio del mandato di due dei tre componenti il consiglio dell’Ivass (Riccardo Cesari e Alberto Corinti). L’Ivass coesiste con Banca d’Italia, ha un consiglio composto da tre membri presieduto dal direttore generale di Bankitalia (oggi Salvatore Rossi), mentre i provvedimenti che adotta e hanno rilevanza istituzionale esterna sono assunti dal direttorio Bankitalia integrato dai suddetti tre membri. Anche in questo caso la nomina è competenza del capo dello Stato, su proposta del governatore e a seguito di una deliberazione del Consiglio dei ministri attivato dall’iniziativa del premier di concerto con il ministro dell’Economia. Da venerdì in avanti, se non si decide sulle proposte di Visco (per la conferma del mandato dei due componenti), l’Ivass sarà paralizzato. Una vacatio che, unita a quella sia pure di un solo membro del direttorio di Bankitalia, non potrà non impensierire il capo dello Stato.
Siamo lontani, per gli uomini e per le macchinazioni, dal livello furibondo dell’attacco del 1979 al grande governatore Paolo Baffi e al vicedirettore generale Mario Sarcinelli. Ma la finalità è sempre quella: non si vuole una Banca d’Italia autonoma e indipendente. Ma questo carattere è sancito dalla legge, dal Trattato Ue che ha rango di norma costituzionale, dall’agire degli uomini che lavorano nell’istituto con competenza, rigore, capacità. Ecco perché chi ha a cuore le istituzioni che traggono materia dalla Costituzione (articolo 47) e un pluralismo istituzionale fondato sul confronto dialettico non può non guardare al capo dello Stato per risolvere questa incresciosa vicenda, dannosa per la credibilità dell’Italia. (riproduzione riservata)
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