Secondo il sesto rapporto Itinerari previdenziali agli italiani è costata 56,6 mld nel 2017
Pagine a cura di Bruno Fioretti

La spesa previdenziale continua a crescere. Sommando il disavanzo e la componente assistenziale, il finanziamento dei costi non coperti da contribuzione, cioè a carico della fiscalità generale nel 2017 è stato di circa 56,6 miliardi di euro. Persiste uno squilibrio contabile nelle gestioni previdenziali che, tuttavia, stando alle previsioni negative dell’andamento del Prodotto interno lordo è destinato a peggiorare nel breve periodo. A mettere insieme tutti i tasselli del complicato puzzle del bilancio del sistema previdenziale italiano è stato, come ormai da tradizione, il rapporto n. 6 del Centro Studi di Itinerari Previdenziali guidato da Alberto Brambilla. Una fotografia che non fa i conti con «Quota 100». L’ottimismo in premessa del Governo a proposito di un ricambio generazionale nel mondo del lavoro, favorito proprio dall’uscita di qualche centinaia di migliaia di lavoratori bloccati dalla riforma Fornero, infatti, dovrà fare i conti con l’annunciata recessione da parte dell’Istat e, più recentemente, dagli ultimi dati che vedono crollare la produzione industriale. Una stagnazione economica non esattamente terreno fertile per le nuove assunzioni e il relativo gettito contributivo.

La spesa ai raggi X. In base al rapporto, la spesa totale per pensioni delle gestioni pubbliche e privatizzate del sistema obbligatorio continua a crescere: nel 2017 è ammontata a 220,843 miliardi di euro, con un aumento di 2,339 miliardi rispetto al 2016, pari all’1,07%. Tenendo conto della quota assistenziale erogata in forma di pensione attraverso la gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali (Gias), la spesa totale sale a 256.425, con un incremento pressoché identico (+1,06%) a quello della spesa previdenziale in senso stretto. La spesa previdenziale ha avuto nel 2017 una leggera accelerazione rispetto al precedente triennio (2014-2016) in cui la crescita media risultava uguale allo 0,6%. Mentre le entrate derivanti dai contributi sono ammontate a 199,842 miliardi di euro, in aumento sull’anno precedente di 3,320 miliardi, equivalenti all’1,69%.

Le variazioni confermano che la leggera ripresa dell’economia e dell’occupazione a partire dal 2014 ha spinto di nuovo all’aumento le entrate contributive che avevano registrato una brusca frenata negli anni peggiori della crisi. Escludendo la componente di spesa di carattere assistenziale (35,582 miliardi di euro), il saldo tra entrate contributive e uscite per prestazioni è risultato negativo per 21,001 miliardi di euro.
La spesa negli ultimi trent’anni. La tabella in pagina mostra l’andamento della spesa per pensioni, delle entrate contributive e dei relativi saldi degli ultimi 30 anni. Si nota che, in presenza di un andamento divergente della spesa e delle entrate, i saldi sono peggiorati fino al 1995. Dopo tale anno, con gli effetti della legge di Riforma n. 335 del 1995 (legge Dini), ricorda il Rapporto, si sono avuti per oltre un decennio andamenti gradualmente convergenti di entrate e uscite, fino ad arrivare a un quasi pareggio dei conti previdenziali nel 2008. Dopo tale anno, le conseguenze della prolungata crisi si sono manifestate in modo evidente, in particolare con una brusca frenata delle entrate contributive e il conseguente nuovo peggioramento dei saldi, che tornano ad invertire la loro dinamica nell’ultimo triennio di leggera ripresa economica.

Il ruolo delle entrate contributive nel determinare i saldi gestionali, con la conseguente sensibilità dei saldi stessi all’andamento congiunturale, è visibile in diversi momenti. Si vedano ad esempio i rallentamenti del ciclo negli anni 2003 e 2005, ma quello che emerge in modo evidente sono gli effetti della lunga crisi iniziata nella seconda metà dello scorso decennio. La dinamica delle entrate si è bloccata nel 2009 ed è diventata addirittura negativa nel 2013, per poi risalire parzialmente rispetto agli anni iniziali del periodo, a cominciare dal 2014. Grazie agli effetti strutturali delle riforme, la dinamica della spesa ha invece mostrato un profilo tendenzialmente decrescente in tutto l’arco di tempo considerato. Ciò nonostante, negli anni in cui l’economia non è cresciuta, o in cui il pil ha avuto addirittura segno negativo, le minori entrate hanno determinato un peggioramento dei saldi della previdenza.
L’andamento delle gestioni. Andando a disaggregare il dato 2017, emerge una situazione molto differenziata per le varie categorie. Quattro categorie (lavoratori dipendenti, commercianti, liberi professionisti e parasubordinati) hanno avuto entrate superiori alle uscite totali e hanno quindi realizzato saldi positivi.

Ma per i lavoratori dipendenti e i commercianti le entrate contributive sono state, invece, inferiori alle uscite totali rispettivamente del 16% e del 2,3% e l’avanzo è ottenuto in forza della gestione assistenziale da cui sono arrivati trasferimenti pari al 18,5% e al 13,2% delle uscite totali. Le casse dei liberi professionisti hanno finanziato il totale delle prestazioni previdenziali senza trasferimenti di natura assistenziale (si veda altro articolo), registrando un consistente saldo attivo pari all’84% delle prestazioni erogate. Il risultato si deve a un rapporto elevato tra numero di contribuenti attivi e numero di pensioni erogate, tipico dei fondi professionali che comprendono categorie che sono ancora in fase di espansione numerica. Tale caratteristica è ancora più evidente per il fondo dei lavoratori parasubordinati (+6,788 mld di euro), dove nel 2017 le entrate contributive sono state un multiplo pari 7,7 volte le pensioni in pagamento. Le altre categorie di assicurati Inps (dipendenti pubblici, artigiani, agricoli, clero e integrativi) hanno invece registrato entrate inferiori alle uscite totali, con saldi di gestione negativi. In termini relativi, lo squilibrio più evidente è stato quello del Fondo clero dove le entrate contributive sono il 29% delle uscite totali e il saldo negativo tocca il 61,7% delle uscite. I disavanzi più pesanti hanno riguardato i dipendenti pubblici, per i quali le entrate sono inferiori alla metà delle prestazioni, gli artigiani con una quota di contribuzioni del 59,5% e i gli agricoli che versano contributi pari al 15,8% delle prestazioni che ricevono.

L’ultima riforma. Anche il prossimo rapporto di Itinerari previdenziali probabilmente non potrà tenere conto degli effetti di «Quota 100» (entrata in vigore nel 2019). Incrociando alcune dinamiche economiche, però, è possibile analizzare uno scenario che in previdenza ha sempre spese certe (l’aumento della spesa in base all’aumento delle persone che lasciano il lavoro) e benefici auspicabili (il ricambio generazionale sui luoghi di lavoro). Partiamo dei costi. Il governo ha stanziato per coprire i costi di questa riforma circa 8 miliardi di euro e stima circa 300 mila nuovi pensionati nei prossimi anni (già 60 mila le domande presentate all’Inps). Ma la spada di Damocle è rappresentata dalla congiuntura economica che si avvia ad essere nuovamente negativa. Lo stesso Centro Studi guidato da Alberto Brambilla e accreditato consigliere economico del governo, almeno nei primi mesi di vita dell’Esecutivo, certifica la stretta relazione fra l’andamento del pil e la crescita/riduzione della spesa pensionistica. A meno di cambiamenti in fase di conversione del «decretone», inoltre, per chi andrà in pensione con «Quota 100» non sarà possibile lavorare e quindi nemmeno contribuire al gettito contributivo da pensionati (come in molti casi accade). Nel breve periodo lo scenario più plausibile appare quindi essere quello di un aumento dei pensionati ma non dei lavoratori. Con relativo peggioramento dei conti Inps.

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