di Sergio Corbello
Il tema della finanza a impatto sociale, seducente per la meritevolezza che lo contraddistingue, negli ultimi tempi è divenuto oggetto di crescente interesse da parte dei cosiddetti stakeholder. La circostanza autorizza a ritenere che questa tipologia di investimento, da argomento di nicchia qual era, nell’immediato futuro possa diventare a tutti gli effetti un macro trend degli investimenti, così com’è avvenuto per le tecnologie ecosostenibili.
L’accresciuta attenzione per pratiche volte a coinvolgere capitali privati nelle iniziative di cosiddetta innovazione sociale, con l’obiettivo di contribuire a un nuovo modello di economia, in cui vi sia spazio per una redistribuzione di benefici a più ampio spettro, si fonda sulla consapevolezza delle effettive opportunità di business aperte da alcuni generali indirizzi socio-economici in atto a livello globale: l’apertura di nuovi mercati volti a rispondere alla domanda di fasce di popolazione sinora escluse in ragione della precaria situazione economica, il consolidarsi della green economy, sopra richiamata, la necessità di assortire e mettere in pratica nuove coperture del welfare, anche favorendo sinergie tra il settore pubblico e quello privato, che consentano di compensare le crescenti difficoltà dei sistemi pubblici, sono soltanto alcuni dei processi in itinere, rilevanti sul piano degli investimenti a impatto sociale.
Ne sono conferma i dati diffusi dal rapporto 2016 del Global Impact Investing Network (Giin), che rileva, già per il 2015, un investimento a livello mondiale superiore a 15 miliardi di dollari in questo segmento, con la previsione di un trend di crescita per il 2016 del 16%.
Ci si augura che i dati di consuntivo per l’anno passato, disponibili a breve, possano risultare ancora migliori di quelli previsionali. Da questo interesse è nato il progetto, sviluppatosi nel 2013 nell’ambito del G8 – su iniziativa della presidenza britannica – che ha portato alla costituzione della Social Impact Investment Taskforce e dei relativi Advisory board nazionali, con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo degli investimenti a impatto sociale e di armonizzarne la crescita nei Paesi coinvolti. Si è così arrivati, nel 2016, alla costituzione in Italia dell’Associazione Social impact agenda, la cui missione è dare continuità all’esperienza dell’Advisoy board italiano. È innegabile che gli impieghi ad alto impatto sociale possano giocare un ruolo di primo piano per gli investitori istituzionali, innanzitutto del comparto previdenziale (fondi pensione e Casse di previdenza dei liberi professionisti), che oggi appaiono culturalmente e tecnicamente pronti a recepirli.
Ma affinché l’auspicato salto di qualità dell’investimento a impatto sociale si concretizzi e divenga un obiettivo credibile delle strategie di investimento occorre che siano sciolti alcuni nodi fondamentali.
Innanzitutto va fatta chiarezza sul concetto stesso di impatto sociale. Un sicuro punto di riferimento è la definizione data dal Giin, secondo la quale gli impact investments sono «investimenti in imprese sociali, organizzazioni e fondi finanziari realizzati con l’intenzione di generare un ritorno sociale misurabile insieme a un ritorno finanziario». Rispetto agli «investimenti responsabili», quelli a impatto sociale si contraddistinguono dunque per l’intenzione esplicita di generare un impatto positivo misurabile, senza rinunciare a produrre, al contempo, un valido ritorno economico per l’investitore.
Altro elemento chiave è rappresentato dalla possibilità di disporre di impieghi caratterizzati da un equilibrato rapporto tra rischio e rendimento atteso. Siffatto rapporto è centrale per i potenziali investitori del comparto previdenziale. I fondi pensione e le Casse di previdenza, infatti, hanno essi stessi un obiettivo sociale, che costituisce la loro mission istituzionale: costruire per i propri iscritti un adeguato trattamento pensionistico, sia esso di primo o di secondo pilastro.
In materia, un elemento di problematicità investe il lato della domanda. Il tema della consolidata diffidenza delle imprese italiane nei confronti dei mercati finanziari e la riluttanza ad adattare la propria governance in maniera coerente con i requisiti richiesti dai mercati finanziari assume contorni ancora più marcati nel caso delle imprese sociali, che presentano profili organizzativi e di governance talora peculiari e non esenti da carenze, almeno nell’ottica tipica degli investitori. Sotto questo profilo è auspicabile che il decreto legislativo di attuazione della legge delega n. 106/2016, che riforma il terzo settore, definisca un disegno organizzativo del comparto in senso favorevole all’investimento.
Da ultimo, non va dimenticato che uno degli attori principali, almeno per alcune tipologie di investimento a impatto sociale (Social impact bonds, pay for results) è il settore pubblico, le cui regole contabili sono spesso incompatibili con le caratteristiche tecniche dell’impiego in parola. (riproduzione riservata)
*presidente, Assoprevidenza
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