di Paola Valentini
Vent’anni di Purgatorio, ecco quello che aspetta l’Italia dopo 20 anni di Seconda Repubblica. Il commento, severo ma alla luce dei fatti non esagerato, arriva da un top manager di un’importante banca internazionale. Che è forse anche stato ottimista. Guardando i dati purtroppo all’Italia quello che è toccato dal 2011 a oggi assomiglia più all’inferno che al purgatorio. A partire dalla previdenza, oggetto della dura riforma Monti Fornero le cui conseguenze, a distanza di sei anni, i lavoratori italiani ancora non dimenticano. Gli interventi, realizzati sull’onda della bufera sullo spread Btp-Bund salito a livelli insostenibili, avevano di fatto abolito le pensioni di anzianità costringendo al lavoro per altri cinque o sei anni chi allora era prossimo alla pensione. Misure che sono subito apparse troppo rigide e ancora più oggi, in una fase in cui il dogma dell’austerità imposto dall’Europa è ampiamente messo in discussione. Tanto più che, come illustra l’ex capo del nucleo di valutazione della spesa previdenziale al ministero del Lavoro, Alberto Brambilla, nel rapporto sul sistema previdenziale italiano di Itinerari previdenziali presentato nelle scorse settimane alla Camera, non è poi vero che l’Italia spende più della media europea per le pensioni. «Al netto dell’assistenza, il bilancio previdenziale 2015 rivela un saldo attivo pari a 3,713 miliardi, a dimostrazione del fatto che il nostro sistema, grazie alle numerose riforme che si sono susseguite nel corso degli ultimi anni, è stato stabilizzato. Ciò dovrebbe indurre a maggiore prudenza nel proporre tagli alle pensioni, deindicizzazioni varie e contributi di solidarietà», afferma Brambilla. Un problema di rappresentazione, dunque, perché l’Italia non ha tenuto distinti i costi per le pensioni da quelli per l’assistenza e non ha tolto dalla spesa il gettito fiscale incassato sulle pensioni. Se fosse stato fatto tutto ciò, molto probabilmente la riforma del 2011 sarebbe stata più morbida, senza necessità delle modifiche che si sono dovute trovare successivamente per restituire flessibilità al sistema. L’ultimo intervento è stato del governo Renzi, che ha cercato di porre rimedio introducendo con l’Ape, ovvero l’anticipo pensionistico, un meccanismo che permette a chi è vicino alla pensione (si parla di over sessantenni) di ritirarsi fino a tre anni prima. L’Ape è prossima al decollo (dovrebbe partire a maggio) e la definizione delle misure attuative è stata uno dei temi del tavolo di lavoro aperto il 21 febbraio tra governo e sindacati per l’avvio di un nuovo percorso di confronto sul tema pensioni, dopo il precedente incontro del 28 settembre 2016 che aveva definito l’Ape (inserita poi nella legge di Stabilità 2017). Oltre ai decreti per dare operatività all’Ape, le questioni affrontate insieme al ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, si sono concentrare sulla fase 2 della riforma, che comporta interventi strutturali più complessi.
Certo, il nuovo tavolo di concertazione si colloca temporalmente in un momento non facile per l’Italia. Ancora una volta, dopo averle concesso maggiore flessibilità sui conti, Bruxelles è tornata a usare il bastone imponendo entro aprile una manovra aggiuntiva da 3,4 miliardi di euro che il ministro Pier Carlo Padoan dovrà varare per non rischiare un’infrazione. In ogni caso il governo va avanti e le misure allo studio, dopo l’Ape, puntano questa volta alla platea delle generazioni che hanno iniziato a lavorare dopo il 1996 e sono interamente contributive. Queste rischiano oggi di lavorare fino a 75 anni. Esiste un meccanismo che permette di anticipare la pensione a 63 anni con 20 anni di contributi versati. Ma a rendere di fatto impossibile l’accesso al prepensionamento è il requisito della prima rata di pensione a 2,8 volte l’assegno sociale. Il che vuol dire uno stipendio di circa 2.500 euro al mese. Al contrario se la pensione è inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale l’età della pensione può salire fino a 75 anni. In sostanza esiste una flessibilità per i giovani, a patto però di avere un buon lavoro. In caso contrario bisognerà lavorare di più, anche fino a otto anni. Come emerge da una elaborazione di Progetica, società di consulenza finanziaria indipendente, per lavoratori tra 25 e 40 anni, che iniziano (o inizieranno), a lavorare a 20, 25 o 30 anni.
I tre scenari sull’età di pensionamento sono stati costruiti considerando le regole previste dalla legge Monti-Fornero per chi ha iniziato a lavorare dal 1996: se al momento del ritiro dal mondo del lavoro la pensione varrà almeno 2,8 volte l’assegno sociale, si può anticipare di tre anni (63 anni e sette mesi, nel 2017) rispetto al requisito normale di vecchiaia (66 anni e sette mesi).
Se invece la pensione sarà inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale, sarà necessario attendere fino a quattro anni (70 anni e sette mesi). La differenza tra chi ha un reddito più alto e chi invece ne ha uno meno consistente o ha carriera discontinua e quindi non riesce a mettere da parte un importo sufficiente di contributi, è elevata: si sfiorano gli otto anni.
«Le simulazioni mostrano come per i lavoratori interessati dal requisito di vecchiaia, i sette anni di forchetta previsti dalla legge possano diventare quasi otto se si considerano anche gli incrementi per la speranza di vita. Una variabilità molto forte, diversa per ogni lavoratore a seconda dell’età alla quale si è iniziato a lavorare», afferma Andrea Carbone di Progetica. «La possibilità di anticipare di tre anni riguarda i lavoratori con una buona carriera continua, mentre il rischio di dover attendere fino a quattro anni in più è per coloro che hanno una carriera precaria e con redditi limitati». Ecco perché «in un’ottica di eventuale riordino delle flessibilità nel sistema contributivo sarebbe auspicabile che fossero considerate entrambe le situazioni». E proprio su questo versante intende agire il tavolo d’intesa per salvare i giovani dallo spettro 75 anni, abbassando l’importo soglia a 1,5 volte quello dell’assegno sociale e ampliando così la platea dei potenziali beneficiari. (riproduzione riservata)
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