Anche dopo l’aumento della tassazione dei rendimenti al 20%, gli strumenti di previdenza complementare si confermano la forma di risparmio più conveniente. Come dimostra un’analisi di Mefop

di Roberta Castellarin e Paola Valentini 

Dal prossimo 1° marzo il Tfr potrà trasformarsi in un’integrazione della retribuzione mensile. Nella legge di Stabilità approvata a dicembre è stata introdotta la possibilità per il dipendente privato in servizio da almeno sei mesi, di chiedere al proprio datore di lavoro, per i periodi decorrenti dal 1° marzo 2015 al 30 giugno 2018, la liquidazione in busta paga dell’importo mensile che avrebbe altrimenti maturato come liquidazione di fine rapporto. Per la seconda volta il Tfr può cambiare destinazione grazie a un intervento legislativo. Già in occasione della riforma della previdenza complementare in vigore dal 2007, il governo stabilì infatti che il Tfr potesse confluire nei fondi pensione in base a un meccanismo di silenzio assenso. L’obiettivo era aiutare i lavoratori a costruire una posizione pensionistica individuale integrativa complementare rispetto a quella obbligatoria. Una risposta per compensare l’effetto che ha avuto il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo sui futuri assegni Inps. Il datore di lavoro con meno di 50 addetti potrà accedere a un finanziamento agevolato visto che queste imprese sono rimaste le uniche a detenere la disponibilità delle liquidazioni. Infatti la riforma del 2007 ha stabilito che il Tfr dei lavoratori che scelgono di lasciarlo nelle aziende con più di 50 dipendenti deve essere girato al fondo di Tesoreria presso l’Inps.

 

La nuova natura del Tfr. Da marzo la natura del Tfr può cambiare ancora una volta perché viene data ai lavoratori la possibilità di incassare ogni mese l’importo maturando. Di fatto, quindi, questa volta il Tfr si trasforma da salvadanaio a integrazione dello stipendio e come tale viene assoggettato alla tassazione ordinaria. Questa possibilità di monetizzare viene data anche a chi aveva scelto di conferire il Tfr al fondo pensione. Peraltro la legge stabilisce che la scelta della liquidazione monetaria, una volta effettuata, non possa essere modificata fino al 30 giugno 2018. Si tratta quindi di una decisione da prendere dopo un’attenta riflessione e soprattutto dopo un calcolo di convenienza fiscale. Da più parti si sono levate voci critiche nei confronti di questa operazione che secondo le intenzioni del premier Matteo Renzi punta a incentivare i consumi delle famiglie italiane che però finora si sono dimostrate più formiche che cicale. E le previsioni indicano che il tasso di risparmio continuerà a salire perché per scopi precauzionali il risparmio è visto come un’ancora di salvataggio. L’Osservatorio sui risparmi delle famiglie di Gfk-Prometeia ha registrato già nel corso del 2014 una crescita dell’indice che misura la propensione al risparmio degli italiani di ben 5 punti. «Un aumento che sottolinea a livello statistico il desiderio delle famiglie di tornare a costruire ricchezza», spiega Fabrizio Fornezza, vicepresidente di Gfk/Eurisko. 
Lo stock totale delle attività finanziarie degli italiani, secondo le stime dell’Osservatorio, passeranno dai 3.850 miliardi del 2013 a 4.330 miliardi del 2016, mentre i flussi di risparmio saliranno, secondo le ultime stime, dai 75 miliardi registrati nel triennio 2011-2013 ai 190 miliardi nel triennio 2014-2016. In ogni caso la tentazione di avere più soldi in busta paga è forte in una fase in cui tra disoccupazione e diminuzione del reddito disponibile le famiglie fanno fatica. D’altra parte le aziende spingono nella direzione opposta, perché il Tfr è per le piccole e medie imprese un’importante fonte di finanziamento. Che fare? In questo senso viene in aiuto un’analisi effettuata dalla Mefop (società per lo sviluppo del mercato dei fondi pensione) per confrontare gli effetti delle diverse opzioni che ha davanti il lavoratore, ossia destinare il Tfr alla previdenza complementare, piuttosto che lasciarlo in azienda o chiederlo in busta paga.

 

Lo studio della Mefop, presieduta da Mauro Marè, prende in considerazione anche le altre due importanti novità introdotte dalla legge di Stabilità 2015, ovvero l’aumento retroattivo della tassazione dei rendimenti dei fondi pensione al 20% (per la parte investita in titoli di Stato resta ferma l’aliquota del 12,5%) e l’incremento della rivalutazione del Tfr lasciato in azienda dall’11 al 17%. «È possibile confermare il vantaggio di destinare il Tfr al fondo pensione?», si chiede Mefop che mette a confronto gli effetti delle scelte del lavoratore in tre casi concreti: versamento del solo Tfr; versamento del Tfr, della contribuzione a proprio carico e di quella datoriale; e nel terzo caso sola contribuzione a carico dell’aderente. Mefop conclude che «resta fermo il vantaggio di destinare il proprio Tfr a previdenza complementare piuttosto che lasciarlo in azienda o richiederlo in busta paga». Tra gli esempi elaborati da Mefop c’è il caso di un lavoratore con un reddito lordo iniziale di 18 mila euro che impegni il solo Tfr per dieci anni e dopo vada in pensione, considerando un rendimento lordo del fondo pensione e del Tfr pari al 3% annuo, un tasso di inflazione al 2% annuo e una crescita del reddito dell’1% reale annuo. Se questo lavoratore versa per 10 anni al fondo pensione la sua liquidazione, il capitale netto maturato si attesta a 14 mila euro, quello in azienda a 12.859 euro, mentre il controvalore del Tfr ottenuto in busta paga si attesta a 8.663 euro. In questo caso, dunque, risulta più conveniente l’opzione fondo pensione in termini di risultato finale.

Nell’ipotesi che oltre al Tfr nel fondo pensione vengano anche versati il contributo dell’impresa e del lavoratore, l’opzione più conveniente resta quella del fondo pensione. In questo caso (ipotizzando un reddito lordo iniziale di 25 mila euro, rendimenti lordi di Tfr e fondo pensione del 3% annuo e una crescita dello stipendio dell’1% reale annuo, un contributo del lavoratore dell’1,4% e dell’azienda dell’1,6%) dopo dieci anni il capitale nel fondo ammonta a 28 mila euro netti, quello in azienda a 17.692 euro netti, mentre il controvalore del Tfr incassato in busta paga sarebbe di 14.470 euro. Allungando il periodo, sale ancora la convenienza del fondo pensione. Dopo 20 anni le somme maturate nel fondo sarebbero pari a 75.369 euro, quelle dovute dal proprio datore di lavoro pari a 47.304 euro e se si fosse scelto di incassare il Tfr mensilmente alla fine il capitale netto sarebbe ammontato a 28.940 euro.

 

Dopo 30 anni questi importi diventano, rispettivamente, pari a 153 mila euro per il fondo, 94.595 euro per il Tfr in azienda e 43.411 euro sempre netti nel caso di opzione del Tfr in busta paga. E anche nell’orizzonte di 40 anni versare al fondo pensione Tfr e contributi permette di ottenere il 60% in più rispetto all’ipotesi di lasciare la liquidazione in azienda: nel primo caso si ottengono 271.678 euro, nel secondo 167.948 euro a fonte di 57.881 euro che spetterebbero allo stesso lavoratore che decidesse di avere la liquidazione mensilmente. La maggior convenienza degli strumenti di previdenza complementare è dovuta non soltanto all’effetto dei rendimenti finanziari, ma anche al profili fiscali più favorevoli. Il Tfr in busta paga sconta infatti una tassazione ordinaria con aliquota minima Irpef del 23%, mentre quello in azienda ha una tassazione separata e quello nel fondo sconta un prelievo del 15% che si riduce dello 0,3% ogni anno fino al minimo del 9% per ogni anno di partecipazione al fondo eccedente il 15esimo.

A questo proposito Mefop si chiede anche qual è la forma di investimento fiscalmente più conveniente tra Btp, fondi comuni e fondi pensione considerando che l’aliquota sui rendimenti dei titoli di Stato è rimasta al 12,5% mentre quella dei fondi pensione da quest’anno è salita dall’11,5% al 20% e i fondi scontano l’aliquota ordinaria sulle rendite finanziarie che dallo scorso luglio è stata aumentata dal 20 al 26%. Nell’ipotesi di un lavoratore che versi 730 euro all’anno per 10 anni con successivo pensionamento la somma netta alla fine del periodo è di 8.455 euro se investita nel Btp, di 8.276 euro nel fondo comune e di 9.920 euro nel fondo pensione (si ipotizza un reddito lordo di 25 mila euro, l1% reale annuo di crescita del salario e rendimenti lordi finanziari del 3%). «Nonostante le modifiche introdotte dalla Legge di Stabilità, numeri alla mano, i fondi pensione restano comunque gli strumenti fiscalmente più convenienti», spiega Mefop. I fondi pensione, infatti, prevedono la deducibilità dei contributi con risparmio dell’aliquota marginale e tassazione sostitutiva delle prestazioni (15-9%; 23%), la tassazione agevolata dei rendimenti (12,5% per la parte investita in titoli di Stato; 20% per gli altri rendimenti). Non scontano il bollo sulle attività finanziarie (con aliquota dello 0,2%) e nemmeno Tobin Tax e Iva sulle commissioni di gestione. Senza dimenticare che il lavoratore che versa il proprio contributo ha diritto anche al contributo del datore di lavoro. Inoltre la posizione accumulata nel fondo pensione non rileva ai fini Isee, l’indicatore economico utilizzato per accedere a tutta una serie di prestazioni sociali. Infine, fa notare Mefop, «in caso di versamenti trattenuti in busta paga dal datore di lavoro, si riduce il reddito ai fini Isee e ai fini del bonus di 80 euro». (riproduzione riservata)