Non c’è più tempo da perdere. I governi di diversi Paesi, compreso il prossimo esecutivo che si insedierà in Italia sotto la guida di Matteo Renzi, sono chiamati a verificare più rapidamente possibile la sostenibilità economica delle proprie pensioni statali e a dare impulso alle adesioni alla previdenza integrativa prevedendo, se necessarie, sottoscrizioni obbligatorie.
Parola dell’australiano Nick Sherry, senior adviser della divisione securities services di Citi. Un vero e proprio guru internazionale nel settore della previdenza: Sherry è stato tra i padri fondatori del sistema previdenziale australiano, il quarto più grande al mondo con 1.750 miliardi di dollari australiani gestiti, ben oltre il pil del Paese. È stato ministro e senatore ed è consulente di vari governi per le riforme previdenziali; dalla recente esperienza della Grecia alla Gran Bretagna, dalla Nuova Zelanda all’Irlanda. «Sono molti i Paesi che hanno bisogno di riforme, compresa la Grecia, dove non è stato fatto ancora abbastanza. Il progressivo allungamento dell’età media, la minore natalità, la crescente precarietà del lavoro e le difficoltà delle finanze pubbliche non consentono più di aspettare per mettere in sicurezza i sistemi previdenziali», sottolinea Sherry, nei giorni scorsi a Roma per incontrare i protagonisti italiani del settore, dalle autorità di vigilanza alle società di gestione, oltre ai rappresentanti dei ministeri. L’esperienza australiana rappresenta del resto un ottimo esempio da seguire considerando che dal 1987, anno di nascita del sistema integrativo, ad oggi il Paese è riuscito a creare un sistema previdenziale consolidato ed entro il 2022 si prevede che gli asset saliranno a 3.500 miliardi di dollari australiani. «La pensione pubblica in Australia è piuttosto bassa rispetto alla retribuzione, con tutti i lavoratori, uomini e donne, che si ritirano dal mercato del lavoro a 67 anni. Nel 1987 è stato introdotto un sistema obbligatorio di adesione alla previdenza complementare con un prelievo pari al 3% dello stipendio», racconta Sherry, che tra le altre cose è stato anche fondatore di due maxi-fondi pensione nati proprio l’anno della riforma, Host Plus e Club Plus, poi fusisi tra loro nel 1990. Poi negli anni il contributo obbligatorio è continuato a salire, anche se con gradualità. Si è passati al 9% nel 1992 fino ad arrivare al 12% previsto per i prossimi anni «e oltre a questo c’è la possibilità di un contributo facoltativo aggiuntivo compreso tra il 3 e il 3,5%», aggiunge Sherry, che riconosce come sia fondamentale introdurre una componente obbligatoria nei versamenti alla previdenza integrativa. «La soluzione ottimale sarebbe convincere le persone ad aderire volontariamente, ma non sempre funziona. Anzi resta alto il rischio che il giovane lavoratore, che per natura pensa poco a quando andrà in pensione, consumi più di quello che potrebbe effettivamente permettersi», continua il consulente di Citi, che guardando all’Italia promuove la riforma fatta dal governo Monti-Fornero che ha introdotto per tutti il sistema contributivo per il calcolo della pensione. «Resta aperto però l’interrogativo se anche dopo questi interventi le pensioni statali siano sostenibili per i conti pubblici considerando che oggi si vive in media per altri 20-25 anni dopo aver raggiunto la pensione», sostiene Sherry. Nodi che dovrà affrontare Renzi appena insediato a Palazzo Chigi. Ma è indubbio che l’impegno maggiore il prossimo governo italiano dovrà metterlo nella crescita della previdenza integrativa, che è ferma al palo da troppi anni, con le adesioni stagnanti a poco più di 6 milioni di lavoratori (con l’unica eccezione delle polizze pip che registrano una crescita) e le masse che non riescono ad aumentare da anni (113 miliardi), da quando in particolare, nel 2007, fu necessario scegliere con il sistema del silenzio-assenso in merito alla scelta sul versamento del proprio tfr maturando nei fondi di previdenza complementare. Dopo quella prima infornata di adesioni tutto sembra essersi congelato e per ridare sprint alla crescita servirebbe introdurre anche in Italia qualche forma di adesione obbligatoria, magari graduale come avvenuto appunto in Australia. C’è poi un altro cambiamento che sarebbe salutare per il sistema previdenziale italiano e che riguarda la diversificazione degli investimenti. Al momento i fondi pensione dell’Italia sono investiti prevalentemente in titoli del debito pubblico, soprattutto Btp, e in parte in azioni. «Per riconoscere buoni rendimenti i fondi previdenziali dovrebbero diversificare il più possibile i propri investimenti», sottolinea Sherry, «per esempio in infrastrutture e strumenti alternativi». Ma non tutto quanto fatto dal sistema previdenziale australiano è stato un successo da replicare. «Abbiamo più di 300 fondi pensione, un numero che crea confusione, mentre i lavoratori avrebbero bisogno di scegliere tra pochi prodotti, rendendo la decisione il più semplice possibile», conclude Sherry. (riproduzione riservata)