Un nuovo spettro si aggira sui mercati finanziari, e questa volta non si tratta di uno scandalo, né di una crisi sistemica, bensì di una tassa. A giorni (si veda ItaliaOggi del 30 gennaio scorso), sarà pubblicato il decreto di attuazione sulla Tassa sulle transazioni finanziarie.
Penalizzato il trading sull’Italia. Dell’introduzione di un’imposta per frenare la speculazione finanziaria si parlava da tempo a livello internazionale, con toni divenuti accesi dopo lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti. La misura adottata nel nostro paese, tuttavia, ha spiazzato gli analisti, sia perché l’Italia si è mossa in proprio mentre era in atto un tentativo di introdurre la misura a livello europeo, sia perché finisce con il colpire anche i piccoli risparmiatori. Una fretta dettata evidentemente dalla volontà di fare cassa per contribuire al risanamento dei conti pubblici, ma che rischia di penalizzare famiglie e addetti ai lavori.
Prelievi dalle azioni ai derivati. Limitandoci agli strumenti più utilizzati in ambito finanziario, la misura introdotta con la legge di Stabilità 2013 (n. 228 del 24 dicembre 2012) colpisce innanzitutto chi acquista azioni italiane quotate, con una capitalizzazione superiore a 500 milioni, calcolando la media del novembre scorso (in sostanza tutte le società di medie o grandi dimensioni, di solito preferite dai risparmiatori perché tendenzialmente meno volatili, oltre a qualche small cap fortemente penalizzata nel valore dal calo degli ultimi anni). L’aliquota, che non si applica solo alle operazioni aperte e chiuse in giornata, sarà pari allo 0,10% della transazione, quindi a 10 euro in caso di acquisto da 10 mila euro. Questo a regime perché nell’anno in corso, considerato che l’imposta entrerà in vigore a marzo, il prelievo salirà allo 0,12%, quindi 12 euro nell’esempio considerato. L’aliquota sale allo 0,20% (0,22% per il 2013) se la transazione azionaria viene fatta al di fuori dei mercati regolamentati, cioè borse ufficiali e sistemi multilaterali. Considerato che a pagare è sempre il compratore, in caso di operazione allo scoperto (vendita di titoli non detenuti), il prelievo scatta al momento del riacquisto.
La disciplina è differente per la negoziazione con i derivati. A cominciare dalla tempistica, visto che l’imposta sarà applicata dal 1° luglio prossimo e sarà dovuta sia dal compratore, sia dal venditore: sul valore del contratto scambiato si applicherà una tariffa fissa, con una serie di fasce, da un minimo di 0,025 euro per contratti da meno di 2.500 euro, a 5 euro per quelli tra 10 e 500 mila, fino al tetto di 200 euro per alcune transazioni come gli swap (per i futures, warrants, certificates, covered warrants e contratti di opzione su azioni, invece, la Tobin tax potrà arrivare fino a massimo 100 euro) oltre il milione di euro. Invece i derivati non regolamentati saranno tassati con tariffe pari a cinque volte rispetto a quelli regolamentati. Infine l’High frequency trading, vale a dire il trading gestito da pc e algoritmi matematici, utilizzato dagli investitori professionali, verrà colpito con un’aliquota dello 0,02%. Dall’imposta è stata esentata la finanza etica, grande sostenitrice della sua introduzione.
L’impatto distorsivo dell’imposta. La Tobin tax è stata oggetto di critiche da più parti. Gli addetti ai lavori prevedono un brusco calo delle operazioni nella penisola, con conseguenze negative per tutti: per lo stato, che difficilmente riuscirebbe a centrare l’obiettivo di un miliardo di euro all’anno (motivo per il quale la misura, introdotta in Svezia nel 1984, fu ritirata otto anni dopo); per i risparmiatori, che potrebbero essere gli unici a pagare, mentre i grandi investitori non avranno difficoltà a spostarsi all’estero; infine per i broker attivi in Italia, che rischiano seriamente di veder contrarre sensibilmente le proprie entrate e hanno già paventato conseguenze negative sull’occupazione. Per altro è il concetto stesso alla base del prelievo a essere contestato: non viene tassato un guadagno (come avviene con l’aliquota sul capital gain), ma l’atto stesso dell’acquisto, di fatto penalizzando chi risparmia e destina questo denaro a far crescere le imprese quotate.
Una prospettiva ben presente al legislatore, che infatti ha escluso la tassazione su chi investe in titoli di stato con il chiaro intento di non veder penalizzata la domanda per le sue emissioni, cosa che lo costringerebbe ad aumentare i tassi di interesse da corrispondere. Infine le critiche si concentrano sulla questione dei derivati, principale target dell’intervento legislativo: anche se il recente scandalo di Banca Mps ha confermato le distorsioni che si possono produrre sul mercato abusando di questo strumento, i contratti in quanto tali non vanno demonizzati.
L’acquisto di derivati nasce dalla necessità di tutelarsi da eventuali variazioni di prezzo nel tempo (ne fanno uso, per esempio, le aziende che acquistano acciaio per proteggersi da scossoni improvvisi della materia prima), mentre come si è visto gli speculatori troveranno facilmente riparo in altre legislazioni meno punitive nei loro confronti.
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