L’invecchiamento della popolazione e il peso dei debiti pubblici fanno sì che la pensione pubblica darà assegni risicati. Un allarme che preoccupa gli addetti ai lavori, ma ancora non viene recepito dalla maggioranza dei lavoratori. A Roma è stato presentato il «Manifesto dell’Associazione degli Enti di previdenza privatizzata per un welfare dei professionisti italiani».
L’intervento nasce da un problema serio. Il futuro pensionistico dei lavoratori, già messo a dura prova, dalle varie riforme pensionistiche che si sono susseguite negli ultimi 20 anni, ora deve confrontarsi anche con quelle che saranno le conseguenze della crisi economica iniziata nel 2008 e ancora non superata in Italia. Da una parte l’assegno pubblico calcolato con il sistema contributivo è indicizzato alla crescita del pil, per cui un pil che non cresce, o addirittura si riduce (come è avvenuto nel 2008 e sta avvenendo nel biennio 2012-2013) taglia l’assegno futuro.
Ma non è finita qui. La recessione porta anche a minori aumenti salariali, come hanno dimostrato i dati Istat pubblicati questa settimana: gli stipendi in Italia sono fermi da anni e non compensano neanche l’inflazione. L’istituto ha rilevato un aumento delle retribuzioni contrattuali orarie nella media del 2012 dell’1,5% rispetto all’anno precedente. Nella serie Istat sulle retribuzioni contrattuali orarie per l’intera economia, che riporta i valori medi annui dal 1983, mai si era registrato un livello così basso.
Infatti il 2012 segna un incremento inferiore anche a quello del già nero 2011, quando l’indice era salito dell’1,8%, il minimo dal 1999. La forbice tra l’aumento delle retribuzioni contrattuali orarie (+1,5%) e l’inflazione (+3,0%), su base annua, è stata dell’1,5%.Quindi la crescita dei prezzi è stata doppia rispetto a quella dei salari. Il terzo tema è poi la mancanza di nuovi lavoratori. Chi oggi è disoccupato non versa i contributi per crearsi una copertura futura, ma danneggia anche il sistema perché se mancano nuovi contributi c’è il rischio che siano necessari nuovi interventi. Come sottolinea Andrea Camporese, presidente dell’Associazione degli Enti di Previdenza Privatizzati: «Tutti i dati in nostro possesso, e più volte resi pubblici, ci dicono che i nostri iscritti hanno subito pesantemente la crisi e non si intravede alcun bagliore che indichi come si esca dal tunnel. Negli ultimi anni siamo stati oggetto di riforme calate dall’alto, spesso senza alcuna possibilità di confronto e senza dare parola a quei lavoratori che rappresentano l’1,5% del prodotto interno lordo».
Oggi il 30% dei professionisti guadagna 1.000 euro al mese e quasi l’8% dei laureati non si iscrive agli esami di abilitazione, «rinunciando a priori a realizzare un sogno sul quale loro e le famiglie hanno investito», aggiunge Camporese. «Noi vogliamo invertire la rotta. Rispondere attivamente all’invito contenuto nel Libro Bianco dell’Unione Europea sulle pensioni e collocare la previdenza in un approccio globale che interessa tutte le dimensioni del welfare, a partite dal mercato del lavoro». Le Casse, superando un approccio tradizionale e formale che ha caratterizzato il governo della previdenza vogliono porre al centro la sostenibilità economica, che dipende dalla capacità di reddito nell’intero arco di vita, e l’adeguatezza. «Mettiamo sul tavolo le nostre proposte e il voto di 2 milioni di iscritti e delle loro famiglie. Alla politica decidere come e se rispondere», conclude Camporese. E una risposta la politica la deve dare a tutti i lavoratori che andranno in pensione in prevalenza con il metodo contributivo e che non ricevono per ora la busta arancione dall’Inps, ossia una lettera che dia indicazione ai lavoratori di quando potranno andare in pensione e con quale assegno, magari prefigurando una forchetta di possibili scenari visto che l’attuale sistema aggancia il quanto e il quanto a diversi fattori che non possono essere previsti con certezza con molti anni di anticipo. Se i lavoratori fossero al corrente di quale assegno magro li aspetta, molto probabilmente guarderebbero con molto più interesse ai fondi pensione, le cui adesioni in Italia stentano a decollare. Proprio su come rilanciare le adesioni alla previdenza complementare per garantire ai lavoratori pensioni adeguate è dedicata un’analisi contenuta nell’ultima newsletter della Mefop che mette a confronto il caso italiano e quello inglese. L’esempio britannico è importante perché questo è un Paese dove il secondo pilastro della previdenza ha una storia molto lunga ed è ben sviluppata a differenza dell’Italia che ha visto partire i fondi pensione solo nell’ultimo decennio. Diverse sono anche le strade scelte per dare slancio alla previdenza complementare: in Italia infatti la formula adottata è quella dell’informazione abbinata al meccanismo del silenzio assenso che però finora ha dato scarsi risultati, mentre in Gran Bretagna per correre ai ripari hanno deciso di adottare un’adesione obbligatoria alla previdenza complementare.
«Nel 2006 il governo britannico stimava che circa la metà dei lavoratori dipendenti privati fosse coperta dalla sola prestazione pensionistica pubblica. La Commissione Turner concluse che, per ridare slancio ai fondi pensione, sarebbe stato necessario rimettere mano alle regole che normano l’adesione, fino ad oggi volontaria e incentivata da agevolazioni fiscali molto generose», spiegano Antonello Motroni e Andrea Testi di Mefop. La Commissione Turner quindi raccomandò l’introduzione di meccanismi automatici al momento dell’adesione a previdenza complementare. E così il governo inglese ha seguito queste indicazioni emanando una legge in base alla quale l’adesione automatica sarà applicata con un calendario a tapp, per favorire la cooperazione di datori di lavoro e dare alle parti più tempo per adattarsi alle novità. La normativa è partita l’1 ottobre. Fino alla fine del febbraio 2014 l’adesione automatica interessa solo le aziende con oltre 250 dipendenti, poi via via sarà estesa anche alle più piccole e alle nuove nate (si veda il grafico). «I nuovi assunti e i lavoratori che non hanno già aderito a un fondo pensione, con un’età compresa tra 22 anni e l’età di pensionamento, attualmente 65 anni per gli uomini e 61 per le donne, e un reddito superiore a 10 mila euro annui (8.105 sterline, ndr), saranno automaticamente iscritti o alla forma pensionistica di riferimento dell’azienda o al nuovo schema a capitalizzazione individuale, denominato National Employment Savings Trust, gestito dallo Stato. Al lavoratore è comunque garantita la possibilità di uscire dallo schema, entro un mese dall’iscrizione. Il processo di adesione automatica si ripeterà ogni tre anni per i lavoratori che hanno deciso per l’opting out», spiegano i due esperti della Mefop.
La contribuzione complessiva sarà pari all’8% (il 3% a carico del datore di lavoro, il 4% a carico del lavoratore e il rimanente 1% a carico dello stato sotto forma si agevolazioni fiscali). Peraltro la formula dell’adesione automatica è stata già adottata in altri Paesi. «Si tratta di un’opzione che negli Usa e in Nuova Zelanda sta dando risultati incoraggianti. In Italia, invece, il meccanismo del silenzio-assenso ha evidenziato risultati finora modesti. Convinto comunque della centralità dello sviluppo della previdenza integrativa, il legislatore ha ritenuto opportuno puntare sul rilancio delle iniziative informative, per stimolare l’attenzione dei lavoratori sulle problematiche previdenziali», sottolineano Motroni e Testi.
L’idea dell’obbligatorietà è entrata nel dibattito anche in Italia, dove però è diversa la pressione fiscale e contributiva rispetto a quella della Gran Bretagna. Per questa ragione in Italia dopo l’introduzione del 2007 dell’adesione ai fondi con il sistema del silenzio assenso per incentivare le adesioni si è deciso di ricorrere alla strada dell’educazione finanziaria. Nello stesso decreto Salva Italia approvato lo scorso dicembre, era previsto un programma coordinato di iniziative di informazione di educazione previdenziali sotto la regia del Ministero del lavoro. Ma poco si è fatto finora, «e ormai trascorso un anno dall’entrata in vigore del decreto e non si può non osservare come il programma sia stato sviluppato solo in parte e non senza difficoltà», sottolineano Motroni e Testi. Eppure oggi ci sarebbe un gran bisogno di educazione previdenziale. «La necessità di iniziative come quelle previste nel decreto «Salva Italia» emerge con forza dalla recente indagine effettuata dalla Fondazione Censis per conto della Covip», aggiungono Motroni e Testi. Dallo studio emerge che i lavoratori sono consapevoli che in futuro avranno pensioni pubbliche non adeguate, ma non vedono oggi nella previdenza complementare la soluzione per integrare ciò che darò lo Stato. «Se le motivazioni di carattere economico e di capacità di risparmio non aiutano lo sviluppo del secondo pilastro, l’elemento che maggiormente sembra allontanare dalla previdenza integrativa è la scarsa conoscenza dello strumento fondo pensione», aggiungono Motroni e Testi.
Solo un quarto dei lavoratori italiani, ovvero 5,8 milioni su una platea di circa 23 milioni, ad oggi, ha sottoscritto un piano di previdenza complementare, mentre sono in aumento le sospensioni contributive. «La crescita delle iscrizioni negli ultimi anni è risultata, per l’insieme delle forme, di pochi punti percentuali all’anno; per i fondi negoziali l’incremento è stato praticamente nullo. Il numero di coloro che sono fuori dal sistema è, pertanto, ancora molto alto», avverte Antonio Finocchiaro, presidente della Covip. Per questo il Censis parla di voragine informativa. «Agli occhi dei lavoratori oggi la previdenza complementare è ancora una nebulosa informe», avverte il Censis nel suo nuovo Rapporto sulla previdenza complementare. «Sono quote elevate di intervistati che in modo più o meno esplicito riconoscono un vuoto informativo su aspetti sostanziali della previdenza complementare, che andrebbe riempito per poi potere ragionare sulle modalità di promozione delle adesioni. Focalizzando l’attenzione solo su coloro che dicono di non essere in grado di rispondere alle domande di verifica su alcuni aspetti della previdenza complementare emerge che sono 2,4 milioni quelli che non rispondono a tutti e tre i quesiti, mentre salgono ad oltre 6,1 milioni coloro che di fatto non rispondono a due quesiti su tre. E’ un universo di estranei totali alla previdenza, al punto da dichiararsi esplicitamente incapaci di rispondere a domande sulle sue caratteristiche costitutive», conclude il Censis.(riproduzione riservata)