Per i lavoratori autonomi, che non hanno diritto al tfr, la costruzione di una pensione alternativa si fa ancora più pressante rispetto ai dipendenti. Con l’aiuto di due esperti abbiamo provato a esaminare pro e contro dei vari strumenti presenti sul mercato, alla ricerca del mix ideale tra rischi assunti e rendimenti attesi.
Sul mattone pesa la fiscalità crescente. Il punto di partenza è il progressivo rinvio dell’età pensionistica disposto con le ultime riforme del settore, insieme con il legame tra aspettative di vita (che tendono ad allungarsi) e importo della pensione mensile. «Nella migliore delle ipotesi, la pensione pubblica non supererà il 55-60% del reddito di chi oggi ha 55 anni, per scendere a livelli prossimi al 40% per un 40enne», spiega Paolo Devescovi, responsabile prodotti assicurativi di Copernico Sim. L’esame delle diverse opzioni di investimento parte dal mattone. «Non è opportuno investire su un immobile da dare in locazione per una serie di motivi», chiarisce. «Oltre a dover disporre subito di un cospicuo capitale da dedicare all’acquisto, la redditività futura risulta essere incerta a causa di una serie di variabili: la sola Imu, che può arrivare a pesare sino a due mensilità del canone di locazione, l’aumento esponenziale della morosità, dei costi legali e dei tempi per il rilascio dell’immobile. Il tutto sperando poi che le condizioni della riconsegna siano decenti, cosa che non avviene quasi mai di fronte a uno sfratto per morosità». Uno scenario, quest’ultimo, che imporrebbe di far fronte a spese straordinarie, con ulteriori costi. Aspetti che per l’esperto possono determinare non solo l’azzeramento dell’integrazione al reddito desiderato, ma addirittura portare a un bilancio negativo.
Incognita fondi. Devescovi si mostra diffidente anche verso le potenzialità dei fondi comuni di investimento. «Anche per chi ha la forza di accantonare risparmi per il futuro e non utilizzarli», riflette, «non ci può essere la certezza che la somma accantonata risulti poi sufficiente a garantire un’adeguata integrazione al reddito, nel caso di una durata della vita molto estesa». Una valutazione fatta alla luce del coefficiente di conversione, che ogni due anni adegua la pensione all’aspettativa media di vita (in costante crescita). «Se d’ora in avanti avessimo una riduzione dei coefficienti media anche di solo l’1% all’anno (rispetto a oltre il 2% annuo avuto nell’ultimo quinquennio), la riduzione delle prestazioni a 65 anni sarebbe pari al 10% per un 55enne, del 15% per un 50enne e addirittura del 25% per un 40 rispetto ai dati oggi disponibili», stima l’esperto. Una possibile soluzione potrebbe essere rappresentata da una polizza di rendita differita con coefficienti predefiniti al momento della sottoscrizione contrattuale e non modificabili. «Così facendo le future variazioni dei coefficienti di conversione non andrebbero a ridurre le prestazioni», aggiunge Devescovi. «I caricamenti, più elevati nelle polizze che nei fondi pensione, non solo verranno ampiamente ripagati, ma grazie all’impossibilità di modificare i coefficienti è come se il prodotto fosse a caricamento zero, e addirittura negativo per i contratti di lunga durata». L’aspetto sfavorevole di questa soluzione è costituito dalla sua rigidità, «che non permette, se non a caro prezzo, di variare nel corso della contribuzione l’entità degli accantonamenti». Così, ipotizzando il caso di un 40enne che riceverà, al compimento dei 65 anni, una pensione pari al 40% del proprio reddito, se desiderasse integrare la parte rimanente dovrebbe destinare sin da subito a forme di accantonamento previdenziale circa il 20% all’anno del proprio reddito. Nel caso di un 50enne con una pensione attesa pari al 50% del proprio reddito, per integrare la parte rimanente dovrebbe accantonare (nei soli 15 anni che rimangono prima di andare in quiescenza) circa il 40% all’anno del proprio reddito. Nel caso di un 55enne con una pensione attesa pari al 60% delle proprie entrate, per integrare la parte rimanente dovrebbe accantonare circa il 60% all’anno del proprio reddito. «Una missione se non impossibile, certamente molto ambiziosa», precisa Devescovi. Così per i lavoratori autonomi, che devono fare i conti con un reddito variabile, l’esperto suggerisce un mix di strumenti in parte rigidi e in parte flessibili: «Lo zoccolo duro, ovvero la parte che ogni anno sono certo di poter accantonare va destinata a una polizza di rendita differita a coefficienti bloccati, mentre la parte più variabile a un fondo pensione la cui componente obbligazionaria sarà più elevata all’approssimarsi della fine del periodo contributivo».
La scelta tra fondi pensione e Pip (Piani individuali pensionistici). Con Dario Luca Spitale, presidente e amministratore delegato di Gaa sim, abbiamo provato a tracciare le opportunità a disposizione di alcuni profili tipo. Cominciando dal caso di un commerciante di 41 anni, lavoratore in proprio da undici anni, con un’abitazione di proprietà e un’elevata propensione al risparmio. «Analizziamo uno degli effetti della riforma di governo sui lavoratori autonomi: i contributi per artigiani e commercianti», esordisce. «Le modifiche della manovra Monti prevedono il 4% di contributi in più dal 2018, ma il rovescio positivo della medaglia è che il maggior numero di contributi versati comporterà un aumento futuro della pensione». Alla luce di questa premessa, Spitale analizza pro e contro di fondi pensione aperti e pip. «I secondi sono molto più costosi poiché, su ogni versamento del lavoratore, le compagnie trattengono una commissione pari in media all’1,5%, con punte che superano spesso il 3%. Più modeste sono, invece, le voci di costo dei fondi pensione, che si aggirano sull’1% del capitale», commenta Spitale. Che sottolinea comunque il vantaggio di alcune soluzioni assicurative, «la garanzia di una maggiore protezione del capitale investito».
È il caso delle polizze legate alle gestioni separate, che investono in fondi amministrati dalla stessa compagnia assicurativa, «che hanno un profilo molto prudente, considerato che il capitale viene impiegato per lo più in titoli di Stato e in obbligazioni di alta qualità». In media, dal 2007 in poi questa categoria di prodotti ha reso il 3,6% all’anno. «In linea di massima, chi versa 100 euro al mese deve aspettarsi dopo un decennio un capitale di circa 13.600 euro, su 12 mila versati», stima Spitale.
Diverso è lo scenario per chi, invece, investe nei fondi pensione aperti, soprattutto quelli azionari, che sono molto esposti all’andamento dei mercati. «Per questi ultimi è difficile fare una stima attendibile dei rendimenti: i migliori prodotti dell’ultimo decennio hanno guadagnato in media tra il 4 e il 5% all’anno».
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