L’ultima grande operazione di smobilizzo di crediti in sofferenza realizzata sul mercato italiano risale al maggio 2005. Banca Intesa, allora guidata da Corrado Passera e non ancora fusa con il Sanpaolo Imi, cedette a una joint venture formata da Fortress, uno dei principali operatori globali nella gestione dei crediti deteriorati, e Merrill Lynch un portafoglio di sofferenze lorde pari a 9,06 miliardi, cioè circa il 70% del totale dei crediti non performing che allora pesavano sul bilancio della Ca’ de Sass.
L’incasso per Banca Intesa fu di poco superiore ai 2 miliardi di euro, ma l’operazione permise all’istituto milanese di liberare risorse da destinare all’erogazione di nuovo credito. Da allora poco è stato fatto. Le altre due operazioni rilevanti di smobilizzo di crediti non performing realizzate negli anni seguenti sono state solo due e di importo nettamente più contenuto rispetto a quanto fatto da Intesa.
La prima risale al maggio 2006, quandoUnicredit, che ancora non aveva incorporato Capitalia, cedette a una cordata formata da Abn Amro, Tecnocasa e Ge Real Estate un portafoglio di sofferenze di 1,6 miliardi. La seconda è del marzo 2007 e vide Bnl, da poco passata sotto il controllo di Bnp Paribas, cedere sempre ad Abn Amro un portafoglio di crediti dubbi per 1,5 miliardi. Da allora in poi, complice anche la crisi dei mutui subprime e lo scoppio della bolla immobiliare anche nei mercati del Vecchio continente, più nulla. Già a fine 2007 l’asta avviata da Ubi Banca per cedere mutui ipotecari in sofferenza per circa 240 milioni si era chiusa con un nulla di fatto. Le offerte arrivate da due operatori esteri erano state considerate troppo basse. Uno spiraglio di luce lo si era visto nella primavera del 2011, prima che la crisi del debito sovrano dei Paesi periferici dell’Eurozona deflagrasse in tutta il suo fragore. Allora il mercato sembrava essersi riaperto e i principali istituti italiani, a partire sempre da Intesa, avevano cominciato a ragionare sulla possibilità di smobilizzare gran parte delle sofferenze. Ma fu un fuoco di paglia. L’attacco della speculazione internazionale al debito sovrano dell’Italia costrinse le banche a riporre nel cassetto ogni piano finalizzato ad alleggerire i libri dai crediti deteriorati in attesa di tempi migliori. Da allora sono passati ormai quasi due anni e non solo il mercato dei non performing loan non si è riaperto (il delta tra domanda e offerta è ancora troppo elevato) ma la recessione che ha colpito l’economia italiana ha fatto crescere ulteriormente lo stock di crediti deteriorati.
I conti al 30 settembre 2012 dei primi sei gruppi quotati a Piazza Affari parlano chiaro. Rispetto alla fine del 2011 le sofferenze sono cresciute del 16% attestandosi a 46,18 miliardi, mentre il complesso dei crediti deteriorati è salito a 113 miliardi dai 92 miliardi del 31 dicembre 2011. Dati che, in vista dell’approvazione dei bilanci 2012, sono destinati a crescere ulteriormente. Secondo le rilevazioni di Banca d’Italia, a fine dicembre l’ammontare delle sofferenze lorde dell’intero sistema ammontava a 125 miliardi con una crescita di 3 miliardi solo nell’ultimo mese. Ma al dato congiunturale si somma anche il giro di vite impresso proprio da Bankitalia sulla politica di contabilizzazione e copertura dei crediti deteriorati. Da novembre gli ispettori di Via Nazionale stanno setacciando i conti dei primi 25 gruppi bancari italiani per verificare se i crediti dubbi siano iscritti a bilancio al loro giusto valore e se le coperture abbiano raggiunto un livello adeguato. Non è dunque escluso che in occasione dell’approvazione dei bilanci 2012 le banche italiane siano costrette a procedere a nuove e importanti svalutazioni del portafoglio crediti, che se da un lato potrebbero far soffrire, e non poco, i conti economici, dall’altro potrebbero favorire il processo di smobilizzo delle sofferenze, che si era interrotto anche per la ritrosia delle banche ad accettare offerte troppo basse per i propri portafogli, che inevitabilmente avrebbero fatto emergere minusvalenze. La stretta di Bankitalia avrebbe tuttavia mutato lo scenario. L’esito delle verifiche ispettive, finalizzate a una contabilizzazione adeguata dei crediti dubbi, potrebbe dunque fissare un prezzo per tali crediti. A questo punto le banche, una volta registrate le perdite a bilancio, potrebbero dunque avere convenienza a cedere parte dei propri portafogli a operatori specializzati nella gestione delle sofferenze.
Non per niente alcune banche d’affari e società di consulenza strategica hanno rispolverato dal cassetto i piani predisposti lo scorso autunno per convincere gli istituti di credito a disfarsi di parte delle proprie sofferenze. Allora quasi nessuno dei grandi istituti sembrava disponibile. L’idea di cedere parte dei crediti dubbi a una società o a un veicolo terzo a un prezzo inferiore a quello di bilancio, complice l’esperienza spagnola, aveva troppo il sapore di una bad bank. Oggi però il clima sembra diverso, tanto che già da qualche settimana alcune importanti banche avrebbero cominciato a ragionare su una soluzione sistemica pensata da Mediobanca per risolvere l’impasse. Secondo quanto risulta a MF-Milano Finanza, il piano messo a punto da Piazzetta Cuccia, che sarebbe pronto per essere sottoposto all’attenzione di Via Nazionale, non prevederebbe infatti la creazione di una bad bank (nell’accezione negativa del termine) ma di un veicolo per la valorizzazione dei crediti non performing finanziato esclusivamente dal settore privato e dove il pubblico parteciperebbe a condizioni di mercato se lo ritenesse conveniente. Il progetto sviluppato dalla banca d’affari guidata da Alberto Nagel prevede che ciascun istituto conferisca a un’iniziativa comune una porzione dei propri crediti non performing, non solo di natura immobiliare ma anche di altro tipo (che siano garantiti o meno). I valori di conferimento degli attivi saranno oggetto di perizia e sarebbero presumibilmente più bassi rispetto alle cifre riportate nei bilanci 2011. Tuttavia, se i libri contabili del 2012 dovessero recepire la stretta di Banca d’Italia, il valore di conferimento potrebbe non discostarsi troppo da questi nuovi livelli, risultando dunque neutro sui conti degli istituti. Eventuali perdite che dovessero emergere in sede di conferimento sarebbero inoltre fiscalmente deducibili in unica soluzione, anziché in un arco di 18 anni, come attualmente previsto per le rettifiche sui crediti. Una volta effettuato il conferimento, ciascuna banca avrebbe una quota, proporzionale ai crediti ceduti, della nuova società. Quest’ultima dovrebbe poi finanziarsi senza emettere titoli di debito, bensì aprendo il capitale a investitori istituzionali. Parte della liquidità incassata sarebbe utilizzata per remunerare subito le banche conferenti.
Secondo Piazzetta Cuccia, il vantaggio per le banche di partecipare collettivamente al progetto anziché cercare di smobilizzare i crediti in ordine sparso sarebbero molteplici. In primo luogo la società veicolo avrebbe maggiore potere negoziale nei confronti dei creditori. Per esempio, molti prestiti non performing erogati da più banche in pool e attualmente spezzettati sui libri di più istituti potrebbero essere unificati e gestiti (sia in termini di contenzioso sia, dove possibile, in termini di ristrutturazione) in modo coordinato. Ci potrebbero inoltre essere importanti sinergie di costo che non emergerebbero se ciascuna banca scegliesse di procedere autonomamente nell’attività di recupero o ristrutturazione del credito. Il terzo vantaggio legato alla dimensione dell’iniziativa comune sarebbe di poter negoziare da una posizione di maggiore forza nei confronti degli investitori istituzionali e professionali interessati a investire nel mercato italiano dei prestiti distressed. Finora questi operatori sono stati alla finestra, in attesa che le banche riducano le proprie pretese in termini di realizzo dei portafogli deteriorati. Una strategia comune, secondo Mediobanca, potrebbe invece consentire di spuntare valutazioni più elevate. Ma qual è stata la risposta dei grandi gruppi creditizi italiani al progetto di Piazzetta Cuccia? Secondo quanto appreso in ambienti bancari ci sarebbero importanti gruppi, tra cui il Monte dei Paschi di Siena di Alessandro Profumo, che avrebbero valutato positivamente l’idea di Mediobanca. Altri, come Intesa Sanpaolo o il Banco Popolare, che invece starebbero ragionando su altre soluzioni. Più interlocutoria invece la posizione di Unicredit, i cui vertici, già da alcuni mesi, avrebbero allo studio una soluzione in grado di gestire in autonomia lo stock di crediti deteriorati. Questo progetto passerebbe dalla segregazione di tale portafoglio, che non verrebbe tuttavia societarizzato, e affidato a un team incaricato di procedere alla ristrutturazione o di portare avanti il contenzioso finalizzato al recupero. Questa strategia, tuttavia, potrebbe non essere incompatibile con il progetto Mediobanca. Per ora, infatti, l’ammontare di crediti dubbi da conferire alla newco non sarebbe ancora stato definito, ma considerato lo stock esistente sul mercato potrebbe essere piuttosto significativo tanto da configurare una soluzione strutturale del problema. La partecipazione di tutti i gruppi creditizi al progetto, inoltre, non sembra essere un fattore pregiudiziale. (riproduzione riservata)