di Giovanni Sabatini
L’articolo a firma di Francesco Ninfole pubblicato su MF-Milano Finanza di ieri mette giustamente in evidenza il dibattito oggi in corso in Commissione Europea sulle modalità di remunerazione della distribuzione dei prodotti finanziari in Europa e della connessa attività di consulenza. È un tema di grande rilievo per lo sviluppo dell’unione dei mercati dei capitali e soprattutto nella prospettiva di canalizzare il risparmio verso investimenti produttivi come leva per il rilancio della crescita e della competitività dell’economia europea ma anche per la costituzione di risparmio previdenziale fondamentale in una società caratterizzata da profondi cambiamenti demografici.
Da tempo la Federazione Bancaria Europea e l’Associazione Bancaria Italiana hanno contribuito al dibattito, fornendo anche analisi indipendenti. In particolare, in collaborazione con l’industria finanziaria francese, spagnola e tedesca, abbiamo supportato la società di consulenza Kpmg che ha svolto un confronto nei quattro Paesi tra i due differenti modelli. Il primo, cosidetto fee-based, è quello basato sul pagamento da parte del cliente di una commissione specifica per il servizio di consulenza distinta dalla remunerazione del servizio di distribuzione del prodotto finanziario. Il secondo, cosiddetto commission-based, è quello in cui il cliente paga una commissione per il servizio di collocamento del prodotto mentre la remunerazione del servizio di consulenza generica che il cliente riceve è remunerata all’intermediario distributore attraverso accordi tra questi e l’intermediario che emette/confeziona il prodotto finanziario. Questo secondo modello prevede stringenti obblighi informativi a carico dell’intermediario distributore affinché l’investitore sia adeguatamente informato ed è soggetto alla condizione per cui gli intermediari devono offrire al cliente, a fronte dei legittimi incentivi percepiti dalle case prodotto, un’ampia gamma di servizi aggiuntivi ad elevato valore aggiunto.
Dal confronto effettuato da KPMG è emerso che dal punto di vista del costo totale supportato dagli investitori (non solo il costo dei prodotti di investimento ma anche gli eventuali costi del servizio di consulenza) i due modelli sono equivalenti. Ma se si considerano gli effetti sugli investitori, soprattutto quelli al dettaglio, i vantaggi del modello basato sugli incentivi sono particolarmente evidenti, in quanto consente loro di godere in maniera diffusa di un livello di servizio, assistenza, informativa e tutela ben più elevato di quanto non si rilevi nei modelli distributivi basati sulle commissioni.
In quei Paesi in cui l’educazione e la competenza finanziaria non hanno ancora raggiunto livello adeguati, come l’Italia, il modello di servizio basato sulla consulenza diffusa e sulla valutazione di adeguatezza degli investimenti, reso possibile grazie al sistema delle retrocessioni, appare senza dubbio preferibile. Ciò peraltro consente a una più ampia platea di investitori, inclusi coloro che hanno minore esperienza e disponibilità finanziaria, di accedere ai mercati finanziari, obiettivo che la stessa Commissione Europea si è prefissata con la Retail Investment Strategy, nell’ambito della Capital Markets Union (Cmu).
Per questi ultimi il modello basato sulla remunerazione autonoma del servizio di consulenza è eccessivamente costoso, data la modesta entità dell’investimento e li priverebbe di quel set informativo minimo e assistenza per compiere le scelte di investimento. I dati della ricerca di KPMG evidenziano, ad esempio, che il 56% degli investitori francesi, il 74% degli investitori tedeschi e il 68% degli investitori italiani non sono pronti a pagare una commissione specifica per il servizio di consulenza.
Una eventuale decisione della Commissione Europea di vietare il modello basato sulle commissioni determinerebbe l’allontanamento dal mercato dei capitali dei piccoli risparmiatori, peggiorerebbe l’informazione complessiva sui prodotti finanziari e la qualità del servizio offerto dagli intermediari, nonché determinerebbe costi sproporzionati per una profonda ristrutturazione del settore dei servizi finanziari. Risultati non in linea con lo sviluppo dell’unione dei mercati di capitali. L’argomento utilizzato per sostenere il divieto si basa fondamentalmente sui rischi di ipotetici conflitti di interessi del distributore rispetto al cliente.
Ma la gestione dei conflitti di interessi potenzialmente inerenti in numerose attività nel settore finanziario, ma non solo, sono sempre stati gestiti attraverso obblighi informativi e di trasparenza e non con divieti che limitano la possibilità di strutturare in forme diverse e competitive l’offerta di servizi finanziari e dunque non efficienti sotto il profilo economico. Laddove vi fossero state violazioni delle regole occorre intervenire con la vigilanza e le sanzioni nei confronti solo di chi non ha rispettato le regole non punendo con divieti indifferenziati chi professionalmente e responsabilmente opera nel miglio interesse della propria clientela.
Oggi il mercato è strutturato in modo da poter offrire servizi e prodotti adeguati a tutte le classi di investitori da quelli più piccoli fino a chi può investire patrimoni rilevati, con un’offerta differenziata e articolata. Un divieto generalizzato come ipotizzato dagli uffici della Commissione appare in controtendenza rispetto agli obiettivi di crescita e competitività dell’economia europea e potenzialmente dannoso come da ultimo ben stigmatizzato dal ministro delle Finanze tedesco Lindner. Ciò non esclude, evidentemente, che non si possano individuare interventi per rendere l’attuale disciplina Mifid degli incentivi più efficiente. Da questo punto di vista stiamo lavorando nell’ambito della Federazione Bancaria Europea e altre associazioni per valutare insieme interventi normativi, alternativi all’ipotesi di introdurre un divieto generalizzato degli incentivi. (riproduzione riservata)
*direttore generale dell’Abi
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