LA MULTINAZIONALE È STATA CONDANNATA A TAGLIARE LE EMISSIONI DI CO2 DEL 45% ENTRO IL 2030
di Federico Unnia
L’ambiente e il clima sono beni preziosi che appartengono a tutti, e le imprese, in primis, debbono agire per ridurre l’impatto delle proprie attività, rispondendo non più solamente del proprio operato ma anche di quello della filiera dei suoi fornitori, sulla cui sostenibilità l’impresa principale deve comunque verificare vengano adottate tutte le soluzioni per ridurre gli effetti sull’ambiente. In sostanza, l’azienda dovrà adottare un piano di decarbonizzazione più severo entro il 2030 rispetto a quando previsto.

Il principio, sancito nella decisione assunta il 26 maggio 2021 n. 5337 dalla Corte distrettuale de l’Aja, nell’accogliere la richiesta presentata da 7 Ong e 17mila cittadini olandesi contro la multinazionale petrolifera Royal Dutch Shell, potrebbe costituire un precedente molto importante, anche in considerazione del fatto che le emissioni di Co2, prime responsabili dei drammatici cambiamenti climatici, sono imputabili alle attività inquinanti delle imprese, sul cui operato anche i giudici nazionali possono intervenire, giudicando se gli impegni assunti dalle aziende siano attendibili e realistici.

Nel caso di specie, la Corte distrettuale olandese ha riconosciuto che gli impegni assunti non fossero sufficienti al perseguimento degli obiettivi dichiarati dal colosso petrolifero, e ha anteposto l’interesse della popolazione olandese ad una riduzione delle emissioni, a quelli produttivi della multinazionale. Il tribunale dell’Aja ha quindi condannato la multinazionale a tagliare le emissioni del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019.

La decisione, contro la quale la Shell ha proposto subito appello, è rilevante in quanto il giudice ha imposto all’azienda una riduzione di emissione di Co2 superiore a quella dichiarata, pena l’eventuale sospensione delle attività produttive. Emissioni di Co2, si badi bene, calcolate con riferimento all’intero gruppo, dei suoi fornitori e dei suoi clienti.

«Siamo d’accordo che sia necessaria un’azione urgente e accelereremo la nostra transizione verso lo zero netto», ha affermato in una nota Ben van Beurden, amministratore delegato di Royal Dutch Shell plc. «Ma faremo appello perché una sentenza del tribunale contro una sola società non è efficace. Sono necessarie politiche chiare e ambiziose che guidino un cambiamento fondamentale nell’intero sistema energetico».

In particolare, Shell ha contestato il fatto che i giudici olandesi non abbiano tenuto in considerazione la sua strategia “Powering Progress” per diventare un business energetico a emissioni zero entro il 2050. La strategia è stata pubblicata ad aprile, sottolinea Shell, dopo le udienze che hanno portato alla sentenza.

Ma la pronuncia del tribunale dell’Aja, stabilendo che le imprese hanno una responsabilità indipendente, che prescinde cioè da quello che fanno gli Stati per contenere l’inquinamento, dovendo in via prioritaria rispettare i diritti umani, rappresenta indubbiamente un precedente giurisprudenziale che le imprese ad alto impatto inquinante, devono, d’ora in avanti, tenere in considerazione. Ne abbiamo parlato con alcuni degli studi legali che si occupano dei temi ambientali.

Per Maria Cristina Breida, responsabile del dipartimento di Diritto ambientale di Legance – Avvocati Associati «la sentenza costituisce il primo caso in cui un tribunale è intervenuto per imporre ad un’impresa di ridurre le proprie emissioni e allineare la propria strategia all’Accordo di Parigi sul clima ed attesta la crescente centralità dei contenziosi ambientali a livello globale. Ritengo che la sentenza costituisca un ulteriore stimolo per le imprese, ed in particolare per quelle con un’impronta di carbonio rilevante, a ripensare i propri piani e obiettivi climatici.

La sfida è quella di passare dalla logica della mera compliance, all’elaborazione di programmi strutturati ed obiettivi più ambiziosi che coinvolgano l’intera catena di approvvigionamento, la quale è responsabile, in molti casi, della percentuale più consistente delle emissioni di Co2 prodotte. In assenza di piani di azione concreti, con scansioni temporali chiare e definite, le imprese rischiano di ridurre la propria attrattività e credibilità nei confronti del mercato e del mondo bancario e finanziario, e ciò rappresenta un sicuro stimolo ad operare scelte sempre più orientate verso la sostenibilità ambientale.

Aggiungo, pensando alla realtà nazionale che il recente intervento normativo dell’Ue è preordinato a garantire ai consumatori, per il tramite di enti rappresentativi designati dai singoli Stati membri, la possibilità di intraprendere azioni a difesa di interessi collettivi e di richiedere provvedimenti risarcitori o inibitori. Pur se non ne costituisce l’ambito principale di applicazione, la materia ambientale non è esclusa dal perimetro delle azioni previste dalla Direttiva che potrebbe dare ulteriore impulso all’avvio di class action per danni connessi a tematiche ambientali, azioni che peraltro già trovano legittimazione nel nostro ordinamento».

Di parere diverso Teodora Marocco, partner del Dipartimento di diritto ambientale dello studio legale internazionale Gianni & Origoni, secondo la quale «La sentenza dell’Aia è stata acclamata da molti come un grande passo avanti nella difesa dell’ambiente. Personalmente non la ritengo condivisibile, quanto meno se rapportata al nostro sistema normativo.

Di fatto, il Tribunale dell’Aja ha condannato la Shell a ridurre le proprie emissioni di gas serra applicando, oltre a specifiche norme di diritto interno che obbligano ad un generico dovere di diligenza, le disposizioni degli Accordi di Parigi, disposizioni che sono vincolanti però per gli Stati più che per le imprese. Certamente la finalità di riduzione degli impatti ambientali è un tema di grande rilievo che, tuttavia, dovrebbe essere affrontato a livello globale (come in effetti avvenuto con la recente legge sul clima approvata dalla Ue), più che con provvedimenti giurisdizionali rivolti a specifici soggetti.

Ad ogni modo la sentenza conferma la crescente importanza per le aziende di approntare una adeguata politica di sostenibilità. La sfida del prossimo futuro sarà quella di orientare i propri processi produttivi secondo un paradigma circolare con una premialità per le aziende virtuose. Vedremo nei prossimi anni un crescente sviluppo della finanza sostenibile con l’integrazione di criteri ambientali, sociali e di governance sempre più orientati ad un’ottica di sostenibilità. Per venire incontro alle nuove esigenze delle aziende in questo ambito il nostro studio ha anche creato un apposito focus team Esg proprio volto a dare supporto ad un quadro in evoluzione ma sempre più teso verso ben specifici obiettivi».

«In linea generale, si possono ipotizzare azioni collettive risarcitorie anche se, per svariate ragioni, è presumibile che i soggetti danneggiati possano comunque preferire la costituzione di parte civile nel dibattimento innanzi al giudice penale tanto più per condotte rilevanti nel solo ambito nazionale», aggiunge Marocco. «Infatti, la legge n. 31/2019 che ha esteso la cosiddetta class action prima esperibile dai soli «consumatori» a tutte le categorie di soggetti cui in conseguenza di un illecito extracontrattuale sia derivato un danno a diritti individuali omogenei quali certamente sono il diritto all’ambiente e alla salute, comporta un procedimento lungo e complesso.

Inoltre la direttiva approvata a Novembre 2020 sulla class action «europea» consentita anche per violazioni di operatori in vari settori tra cui anche quelli ambientali, deve essere ancora trasposta in Italia e bisognerà anche capire come e con quale coordinamento rispetto alla disciplina già esistente. Ovviamente le azioni collettive non potranno avere ad oggetto il danno ambientale in sé che compete solo al ministero della Transizione ecologica ma solo gli eventuali danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dalla compromissione ambientale».

Secondo Ugo Ruffolo, già Ordinario di Diritto Civile nell’Università di Bologna e fondatore dello Studio Ruffolo (autore del recente volume «Class action ed azione collettiva inibitoria», edito da Giuffrè Francis-Lefebvre), «La sentenza olandese pare un «ibrido» fra quelle che per noi sono l’azione di classe e l’azione collettiva inibitoria, in Italia già previste dal Codice del consumo ed ora ampliate con la recente legge n. 31/2019, entrata in vigore solo lo scorso 19 maggio.

Conosco bene la nuova legge, anche per essere stato «audito» in Senato quando era in preparazione. Da un lato, la class action, ora divenuta in Italia azione (non più solo consumeristica, ma) generale, consente «solo» di estendere il giudicato di una azione già individualmente esperibile anche a soggetti che non sono parti (ma solo «aderenti»), portatori di interessi/diritti «omogenei». E consente di ottenere tutela essenzialmente risarcitoria.

Dall’altro lato, la azione collettiva inibitoria consente ad un giudice ordinario di inibire comportamenti, attività o atti lesivi di interessi (non individuali, ma) collettivi – tra cui, teoricamente, anche quelli afferenti alla materia ambientale – e/o di imporre misure correttive idonee. Sono queste, di norma, azioni con legittimazione limitata solo a qualificati enti esponenziali di interessi collettivi; e così era nel precedente regime dettato dal Codice del consumo. Ora, con la nuova legge la azione collettiva inibitoria vede, invece, estesa la legittimazione ad agire «chiunque», ossia a qualsiasi singolo.

Passando, potrebbe dirsi, da azione collettiva ad azione «popolare» (oltre a prestarsi anche a strumentalizzazioni ed abusi snaturanti). Tornando alla sentenza olandese, al di là se sia teorizzabile un diritto individuale all’«ambiente», resta il fatto che la tutela accordata dal giudice dell’Aja non è risarcitoria, ma «collettivamente» riparatoria. E, soprattutto, sembra imporre le «misure correttive» che la nostra norma sulle azioni collettive inibitorie consente al giudice di disporre.

Da noi un’azione collettiva dello stesso tipo sarebbe, dunque, ora possibile. Nel passato meno prossimo, del resto, fecero scalpore le iniziative giudiziali di «Italia Nostra» a tutela dell’ambiente».

«La panoramica normativa e giurisprudenziale è, a ben vedere, l’emanazione di una rinnovata coscienza collettiva proiettata a tutelare l’ambiente», commenta Massimo Penco, managing partner ed esperto di compliance ambientale dello Studio legale Penco. «Le imprese sono tenute non solo a verificare e limitare il proprio impatto ambientale, ma anche a dedicare le loro migliori risorse nella promozione della sostenibilità in senso ampio.

Anche sul piano dell’organizzazione aziendale, come su quello degli investimenti, i criteri che tengono conto dell’Environmental, Social, and Corporate Governance (Esg) hanno ormai assunto e assumeranno sempre più un ruolo di primissimo piano. Le pronunce menzionate rientrano in questo quadro e, al suo interno, ribadiscono l’attenzione che anche gli ordinamenti attribuiscono a questi temi.

«Quella su Shell è una sentenza che incide in maniera rilevante sui processi di produzione delle aziende, qualunque sia la loro dimensione», spiega Alicia Mejía Fritsch co-titolare dello studio del professor Guido Calvi. «Infatti, le aziende sono chiamate, anzi obbligate, a stabilire, quando non a rivedere, i propri obiettivi e strategie a medio e lungo termine per ridurre le emissioni in atmosfera. Infatti, le aziende, dovranno adottare politiche aziendali che individuino le fonti di inquinamento dei propri impianti e destinare risorse da investire in nuove tecnologie, necessarie per adeguare gli impianti agli obiettivi prefissati, modifichino e/o adottino procedure di controllo capaci di verificare l’idoneità e il perfetto funzionamento degli impianti e il raggiungimento degli obiettivi prefissati.

Come visto, si tratta di misure che incideranno in modo rilevante su tutto il processo di produzione: se al centro saranno poste le preoccupazioni ambientali, ciò non potrà non condizionare in modo rilevante gli investimenti da effettuare ora e in futuro. La sentenza in oggetto certamente sarà impugnata, ma non è escluso che i principi in essa indicati potrebbero essere recepiti da altri successivi provvedimenti» .

Si possono ipotizzare anche azioni collettive risarcitorie a seguito di procedimenti penali per danni ambientali, alla luce delle nuove norme emanate a livello Ue in difesa dei consumatori? «Dare una riposta a questa domanda è difficile, in quanto, per poter avviare l’azione collettiva, si deve dimostrare che chi è stato condannato ha agito nell’esercizio della propria attività commerciale, imprenditoriale o professionale, oppure ha agito, debitamente autorizzato, a nome e per conto di altri (società)», aggiunge Mejía Fritsch.

«Comunque, benché vi sia stata una sentenza penale di condanna per uno dei reati ambientali, per avviare l’azione sarà necessario fornire la prova che chi invoca il diritto al risarcimento abbia subito un effetto immediato e diretto dai fatti delittuosi per cui è intervenuta condanna. È necessario provare il c.d. nesso di causalità tra il danno ambientale cagionato dal condannato nell’esercizio della propria attività «professionale» (come definita dall’art. 3 comma 2 della Direttiva Ue 2020/1828 del 25 novembre 2020 relativa alle azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori) e i danni asseritamente subiti. In questi casi, la prova del danno subito spesso si rivela assai difficile».

Secondo Vincenzo Pellegrini, senior partner studio legale Bm&a, responsabile dipartimento diritto ambientale «La recente sentenza della Corte dell’Aia, seppure riferita all’applicazione del Codice Civile olandese (ritenuta legge applicabile), è indubbiamente rivoluzionaria, da un certo punto di vista. Ma ad avviso del sottoscritto, lo è in termini non condivisibili. La sentenza impone al gruppo Royal Dutch Shell di fare quanto necessario per limitare il volume aggregato di Co2 del 45% entro il 2030 e lo fa trasformando impropriamente un obbiettivo di una convenzione internazionale tra Stati (non idoneo a costituire diritti e doveri in capo ai soggetti privati) in un obbligo (seppure attraverso il filtro del principio di diligenza nell’agire). Non ritengo che gli stessi principi potrebbero condurre un Tribunale italiano ad analoga condanna (in questo caso sulla base dell’art. 2043 del codice civie), mancando sia un danno attuale sia un comportamento contrario ad un precetto immediatamente applicabile.

Rimane comunque una sentenza che dà la misura dei tempi e della progressiva centralità che la tutela dell’ambiente sta acquisendo nella coscienza collettiva, centralità che si riflette nell’approccio dei giudici alle soluzioni dei conflitti in materia ambientale.

Detto questo la class action, nell’attuale configurazione derivante dall’introduzione degli articoli 840 bis e seguenti del codice di procedura civile ad opera della legge 31/2019, entrata recentemente in vigore, non più limitata ai soli diritti dei consumatori, si presta alla tutela di diritti lesi dagli illeciti ambientali, che come noto hanno molto spesso la natura di diritti omogenei e diffusi (presupposto per l’avvio di una class action). D’altro canto, la tradizionale attività contenziosa in materia ambientale da parte di comitati e associazioni ne costituisce una riprova ante litteram».

Infine, secondo Piero Magri, partner di Rp Legal & Tax, dipartimento diritto penale «la sentenza rappresenta una tappa fondamentale per la giurisprudenza in materia ambientale e si inserisce nel nuovo contesto interventista dove si prevede la possibilità per la magistratura di imporre obblighi nuovi per la tutela ambientale e per prevenire offese anche solo potenziali.

Certamente questi orientamenti contribuiscono a creare una sensibilizzazione più generale, in questo caso in tema di strategie aziendali per gestire il cambiamento climatico, anche se si prestano ad interpretazioni critiche. Il parallelo penalistico è quello dei delitti di attentato o di pericolo astratto nei quali il legislatore vuole giustamente prevenire un danno che, se verificato, sarebbe molto grosso, o, nel sistema 231, gli interventi cautelari che portano a modificare il management di una società o nominare Commissari straordinari che devono gestire le società riferendo all’Autorità Giudiziaria.

Insomma il concetto è che si sta dando all’Autorità giudiziaria poteri anche invasivi di intervento nella gestione delle aziende per evitare il peggio: si tratta di una tematica molto delicata perché i beni da tutelare sono diversi e spesso contrapposti e il perno deve essere il principio di legalità. Il tema è quindi più civilistico in quanto le azioni collettive (o class action) non sono ancora disciplinate nei processi penali dove interviene la costituzione di parte civile del soggetto danneggiato o tutt’al più delle Associazioni dei consumatori, per conto dell’associato. Ma si andrà sempre più in questa direzione per i grandi eventi dannosi per l’ambiente.

Voglio però sottolineare che il bene giuridico tutelato dai reati ambientali è l’ambiente considerato di per sé più che il singolo bene o diritto del cittadino o dell’associazione che può comunque essere danneggiato, ma l’ambiente è un bene di tutti e per questo deve essere tutelato».
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