di Paola Valentini
Il risparmio delle famiglie è il vero petrolio dell’Italia. Per questo motivo il Paese non può permettersi che tali ricchezze, del valore di oltre 4 mila miliardi di euro (importo tra i maggiori al mondo), vadano all’estero. Non se lo può permettere perché questo patrimonio, che per anni è stato investito in Btp grazie ai rendimenti molto elevati, oggi è una risorsa preziosa per finanziare l’economia del Paese e, in particolare, le pmi, che ne sono l’ossatura in quanto rappresentano il 90% delle aziende tricolore e sono considerate in tutto il mondo l’emblema del made in Italy. Il problema è che queste imprese fino a poco tempo fa ricevevano finanziamenti dalle banche, le quali però oggi hanno stretto i cordoni della borsa a causa delle regole europee che costringono gli istituti di credito a rispettare rigidi requisiti patrimoniali. Dunque le aziende devono rivolgersi a fonti alternative di finanziamento e il mercato dei capitali potrebbe essere la soluzione; ma è necessario, appunto, che i capitali vi affluiscano.

Ne guadagnerebbero sia il tessuto economico italiano sia gli stessi risparmiatori, i quali ormai trovano sul mercato soltanto titoli di Stato che non rendono più nulla o quasi. Mentre le pmi hanno dato buona prova di sé in borsa negli ultimi anni. Va proprio in questa direzione il debutto dei nuovi Pir, i Piani Individuali di Risparmio che consentono di azzerare le imposte sui capital gain (26%) e quelle di successione a patto di essere investiti almeno in parte in titoli delle pmi quotate al di fuori dall’indice Ftse Mib, quello delle grandi società italiane. La priorità andrebbe data alle quotate dell’Aim, il vero mercato delle pmi di Piazza Affari, che però per ora, rispetto all’omologo inglese l’Aim di Londra, ha ancora un bacino troppo piccolo, visto che conta soltanto 77 società contro le quasi mille della City (si veda articolo a pagina 19). Certo è che, a prescindere dagli strumenti studiati per far affluire risorse alle pmi, l’importante è che le risorse arrivino a queste aziende. Per questo motivo la difesa del risparmio deve essere una priorità per l’Italia. E tale difesa deve passare attraverso la creazione di campioni nazionali della gestione del risparmio, perché la minaccia dei gruppi esteri si fa sempre più pressante. Tanto più che dopo che lo scorso dicembre il big francese Amundi ha comprato Pioneer, terzo asset manager in Italia con masse per 145 miliardi (e oltre 200 miliardi a livello globale), il pericolo che altri gruppi progettino ulteriori operazioni si fa sempre più concreto.

D’altra parte, dopo la cessione di Pioneer da parte di Unicredit , le società di gestione estere sono arrivate a detenere in Italia oltre 600 miliardi, circa un terzo delle masse dell’industria dell’asset management, che tra fondi comuni e gestioni di portafoglio a fine 2016 sono salite al massimi storico di 1.900 miliardi. Purtroppo solo una quota marginale di queste risorse viene investita nelle azioni di Piazza Affari. Prova ne è che il patrimonio dei fondi azionari Italia è di soli 7,3 miliardi (dato Assogestioni). Discorso diverso per i titoli di Stato, che per anni sono stati l’investimento prevalente delle famiglia italiane. Considerando la categoria dei fondi obbligazionari governativi della zona euro, le loro masse superano i 60 milardi. E, come si può verificare nella tabella elaborata da Morningstar e pubblicata in pagina, ci sono fondi con questa specializzazione esposti per ben oltre il 50% del loro patrimonio ai titoli del Tesoro italiano. Senza dimenticare che le stesse banche direttamente investono parte degli attivi in Btp. Da una ricognizione effettuata sugli ultimi bilanci di Intesa e Unicredit emerge che la banca guidata da Carlo Messina ha 90 miliardi di obbligazioni governative italiane, mentre l’istituto guidato da Jean Pierre Mustier ne ha circa 62. E Generali , che occupa il primo posto nell’industria italiana del risparmio gestito con masse per oltre 471 miliardi, ne ha in pancia oltre 70 miliardi. La corsa al risparmio gestito va quindi frenata anche per scongiurare nuovi momenti di crisi, come quello del 2011, quando l’Italia fu colpita dalla speculazione proprio attraverso vendite massicce di Btp da parte di banche estere. E, più titoli di Stato italiani finiscono in mani straniere, meno armi ha l’Italia per arginare nuovi attacchi quando l’ombrello della Bce che oggi li protegge non ci sarà più.

In questo senso un’eventuale integrazione tra Generali e Intesa potrebbe creare un colosso del risparmio gestito con masse per oltre 845 miliardi, al primo posto nell’industria italiana dell’asset management con una quota di mercato vicina al 45%, considerando che la banca di Cà de Sass è seconda in classifica con 373 miliardi, di cui 285 di Eurizon Capital, società guidata da guidata dall’amministratore delegato Tommaso Corcos. A questi si aggiungono 88 miliardi di Fideuram, la banca rete che nel 2015 si è unita a Intesa Sanpaolo Private Banking (ma considerando la raccolta totale si arriva a masse amministrate di 192 miliardi, dato che rende la banca guidata da Paolo Molesini la prima private bank in Italia e la quarta nell’area euro). Insieme i due gruppi distanzierebbero ancora di più in Italia il polo Amundi-Pioneer, che sul mercato tricolore ha 191 miliardi ed è oggi al terzo posto.

Tali numero però sono modesti nel confronto internazionale. Ad esempio, un big come Blackrock, primo per dimensioni sul mercato europeo, ha un patrimonio gestito di oltre 4.300 miliardi, mentre un altro colosso del calibro di Fidelity ha masse globali per oltre 1.800 miliardi. In Europa comunque un polo dell’asset management Intesa Sanpaolo -Generali entrerebbe tra i primi 15 per patrimonio, con un gran salto in avanti per Generali che oggi è solo 35esima. Il nuovo gruppo si attesterebbe infatti al 14° posto avvicinandosi ad Amundi, che con Pioneer è salito nella top 10 degli operatori europei passando dall’undicesima all’ottava posizione con masse per oltre 1.270 miliardi.

La corsa al risparmio è dunque solo all’inizio. D’altra parte oggi, con tassi ai minimi e bassa crescita economica (due fattori che comprimono i margini), anche nell’asset management occorre avere una certa dimensione per sopravvivere, essere redditizi e combattere la minaccia di soluzioni low cost, come i fondi passivi e i robot-advisor. Va in questa direzione l’alleanza tra Anima e Poste Italiane . Proprio la società di gestione guidata da Marco Carreri aveva messo gli occhi su Pioneer; sfumato l’affare, ora si prospettano nuovi colpi all’orizzonte. A partire da un’operazione già delineata: nei prossimi mesi Poste farà confluire in Anima la sgr Banco Posta Fondi. Ciò permetterà di creare un gruppo da 145 miliardi di masse, al quarto posto in Italia subito dopo Amundi-Pioneer. Ma non è finita qui. Entrambi i gruppi puntano infatti a crescere nel risparmio gestito e uno dei capisaldi del piano industriale del gruppo guidato da Franceso Caio è proprio l’asset management. In questo contesto è tornato in auge il dossier Aletti-Gestielle, la sgr controllata dal Banco Popolare, che si unito con Bpm (che tra l’altro è uno degli azionisti di Anima ). Banco Bpm ha precisato di aver chiesto a Barclays di condurre una ricognizione sulle partecipazioni del gruppo ma «senza un focus su specifici asset». Intanto non mancano altre opzioni su cui il mercato scommette. Su tutte spicca Arca, dato che il 40% di questa sgr è nelle mani del fondo Atlante tramite Bpvi e Veneto Banca e non è un mistero che entrambe queste banche vogliano monetizzare la quota nell’asset manager. Oggi Arca gestisce 30 miliardi e con Aletti-Gestielle, che ha circa 15 miliardi, Anima -Poste si attesterebbero sui 190 miliardi raggiungendo i francesi di Amundi-Pioneer. (riproduzione riservata)
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