di Marino Longoni
Pensioni da fame per i liberi professionisti. Il sistema contributivo, al quale quasi tutte le Casse si sono ormai adeguate, garantisce l’equilibrio finanziario, anche di lungo periodo, ma non certo la congruità degli assegni previdenziali. L’ultimo allarme viene dalle Casse di nuova generazione, quelle istituite con la legge 103 del ’96 (biologi, psicologi, agronomi e forestali, attuari e chimici, periti industriali e infermieri): la pensione media erogata nel 2016 da questi enti è stata di 2.224,60 euro l’anno. Addirittura, in calo del 2,2% rispetto al dato del 2014 (2.275,80 euro). Meno di 200 euro al mese. Meno della metà della pensione sociale.
È vero che stiamo parlando di casse di previdenza che hanno solo 20 anni di vita, quindi gli assegni erogati fanno riferimento a un periodo di contribuzione al massimo ventennale. Ma anche facendo le proiezioni su periodi più lunghi non c’è molto da stare allegri. Il sistema contributivo funziona così. Inoltre i professionisti, soprattutto negli anni passati, hanno applicato aliquote piuttosto basse (generalmente il 10%) e questo non ha consentito la formazione di un montante contributivo in grado di garantire assegni dignitosi.
Un professionista che abbia 30 anni di versamenti contributivi, con un reddito medio di 20 mila euro e un reddito nell’ultimo anno di lavoro di 31 mila euro, avrà maturato con il sistema contributivo il diritto a un assegno annuale di circa 10 mila euro. E questo vale sia per le cosiddette Casse del 103, sia per quelle più vecchie che applicano il contributivo. L’assegno invece raddoppia se i contributi sono stati versati nella gestione separata Inps. In questo caso però sono più alti anche i contributi del lavoratore (attualmente l’aliquota è fissata al 25%).
Da una parte, quindi, la prospettiva di un assegno pensionistico miserevole, dall’altra quella di aliquote contributive che, sommate a quelle fiscali, rischiano di portarsi via buona parte del reddito del lavoratore. Insomma non se ne esce.
Le Casse di previdenza dei professionisti sono ben consapevoli del problema, al punto che negli ultimi anni hanno escogitato numerose soluzioni per rendere meno drammatica la situazione dei rispettivi iscritti. Molte hanno previsto, accanto a un’aliquota minima obbligatoria, un versamento facoltativo che contribuirà a rimpinguare l’assegno previdenziale. Oppure si sta cercando di aggiungere al montante contributivo una parte delle somme che sarebbero destinate alla gestione dell’ente o alle riserve. Quasi tutte le Casse si stanno sforzando di fornire agli iscritti anche servizi aggiuntivi di welfare, sia nell’arco dell’attività lavorativa sia durante il godimento della pensione. C’è allo studio da tempo la gestione in comune tra più Casse di alcuni servizi amministrativi, o di strumenti di welfare.
Resta in ogni caso il fatto che con un andamento demografico negativo (le morti superano le nascite), in un sistema economico che non cresce o cresce dello zero virgola, con un mercato dei servizi professionali vicino alla saturazione, con mercati finanziari dove i rischi incombenti sono molto più imponenti rispetto alle opportunità, nemmeno le casse meglio gestite possono fare miracoli. Soprattutto se il legislatore gioca contro e ogni anno presenta il conto di qualche novità che generalmente va nel senso di erodere l’autonomia delle casse o il loro patrimonio. Bisognerà abituarsi all’idea di lavorare più a lungo, versare contributi più alti, oppure accontentarsi di pensioni molto più povere di quelle elargite ai nostri padri. (riproduzione riservata)
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