Primo, le collaborazioni coordinate e continuative continuano a essere legittime. Le numerose riforme che, negli ultimi anni, sono state varate per cercare di stanare le false co.co.co non hanno cancellato la possibilità di stipulare un valido contratto di co.co.co. in presenza di requisiti precisi come l’autonomia del lavoratore nella gestione del tempo e delle modalità di lavoro, il fatto che la prestazione lavorativa non si svolga in azienda ecc.
Secondo, se una collaborazione maschera un rapporto di subordinazione (cioè in presenza di prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro) a questa co.co.co. si applica la disciplina del lavoro subordinato. Non c’è bisogno di convertire o trasformare il rapporto di lavoro. Il rapporto di lavoro resta qualificabile come collaborazione ma si applica tutta la disciplina del rapporto di lavoro dipendente.
Terzo, la possibilità di applicare alla collaborazione la disciplina del rapporto di lavoro subordinato è applicabile anche ai titolari di partita Iva.
Sono questi i tre punti fermi con i quali il ministero del lavoro, nella persona del direttore delle attività ispettive, Paolo Pennesi, ha interpretato l’ultima modifica alla disciplina delle co.co.co. contenuta nel decreto legislativo n. 81 del 2015. I chiarimenti sono arrivati nel corso della videoconferenza organizzata da ItaliaOggi il 21 gennaio. Riportiamo qui la trascrizione integrale dell’intervento di Pennesi.
Domanda. L’art. 2 del dlgs n. 81/2015 stabilisce, al primo comma, che «A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro». La norma apre a due possibili interpretazioni, del tutto diverse tra loro. Secondo la prima, si introdurrebbe una «presunzione legale» di subordinazione per i rapporti di collaborazione con quelle caratteristiche, per cui sono da convertire/trasformare in rapporti di lavoro subordinato. Seguendo la seconda interpretazione, la norma introdurrebbe una nuova specie di rapporti di collaborazione che, fermo restando l’appartenenza all’ambito della parasubordinazione (prestazioni di natura autonoma), avrebbero unicamente la novità di dover essere regolamentati secondo la disciplina del lavoro subordinato. Quale di queste lettura dà il Ministero del lavoro?
Risposta. La dottrina si sta ancora interrogando se siamo in presenza di una norma di fattispecie o di una norma di disciplina, cioè se si è voluto dare un’altra nozione di subordinazione, addirittura modificativa dell’articolo 2094 del codice civile, oppure una norma di minore portata rivoluzionaria, semplicemente un’applicazione della stessa disciplina della subordinazione a rapporti che non vengono trasformati. Al di là del fatto che tecnicamente mi sembra un po’ forte definirla una presunzione (in realtà la norma non è scritta nemmeno in questi termini; e se di presunzione dovessimo parlare mi sembrerebbe una presunzione di carattere assoluto); la disposizione vuole introdurre in realtà un altro regime, dove, invece di ripercorrere la strada della parasubordinazione come hanno fatto le vecchie collaborazioni a progetto, fa molto di più e sotto questo profilo dà una tutela molto superiore rispetto a quelle (collaborazioni a progetto, ndr) perché porta alle estreme conseguenze le ipotesi elusive del contratto di lavoro dipendente mascherato da lavoro autonomo attraverso fattispecie come le collaborazioni. Noi sappiamo che le collaborazioni a progetto non esistono più, esistono le collaborazioni coordinate e continuative, ma se in riferimento a queste co.co.co. sussistono tutte le condizioni previste dall’articolo 2 comma 1 del dlgs 81/2015, si applicano a questo lavoratore, indipendentemente da ipotesi di trasformazione o conversione, la disciplina del lavoro subordinato. Quella prevista dall’articolo 2094 del codice civile è un’altra strada: se il lavoratore o gli organi di controllo o vigilanza ritengono che si siano concretizzati tutti gli elementi che danno luogo ad una vera e propria subordinazione, chiedono la riqualificazione come rapporto di lavoro subordinata. Senza arrivare a questo, laddove sussistano i requisiti previsti dall’articolo 2 comma 1 si applica a questi lavoratori la disciplina del lavoro subordinato, rimanendo loro stessi dei co.co.co..
Non si discute di dargli una qualificazione diversa, ma di dargli uno statuto regolatorio assolutamente identico a quello dei lavoratori subordinati. Sostanzialmente si raggiunge lo stesso effetto senza andare a scomodare complicate operazioni di conversione o riqualificazione che, anche sotto il profilo della disponibilità di tipo contrattuale potrebbero essere più complesse. Questo mi pare abbia fatto la disposizione normativa. Poi è chiaro che su questo si possono andare ad innescare alcuni problemi interpretativi o applicativi o quant’altro: tuttavia, ove si concretizzino tutti i requisiti, insisto sul concetto di tutti, quindi sostanzialmente ci sia una collaborazione esclusivamente personale, continuativa, in modalità di etero-organizzazione con riferimento alle circostanze di tempo e di luogo, si applica a questo lavoratore la stessa identica disciplina del lavoro subordinata, al di là di ipotesi qualificatorie prevista dall’articolo 2094 (un canale tradizionale, che peraltro rimane inalterato).
D. Quale «disciplina del lavoro subordinato» si applica alle collaborazioni con quelle caratteristiche? Tutta la disciplina (previdenziale, legale, contrattuale, civile, ecc. ) o solo una parte? E quale parte?
R. Assolutamente non c’è dubbio: tutta, integralmente, la disciplina del rapporto di lavoro subordinato: l’obbligo di applicare la contrattazione collettiva, l’inquadramento previdenziale (non alla gestione separata ma) a quella dei lavoratori dipendenti, tutte le tutele della normativa e della legislazione sociale, gli ammortizzatori sociali, ma anche la disciplina in materia di lavoro e sicurezza: Tutto lo statuto regolatorio del lavoratore co.co.co migra verso la subordinazione, indipendentemente dalla qualificazione di questo soggetto. Quindi è un soggetto al quale si applica, lo ripeto ancora, tutta la disciplina del lavoro subordinato.
D. L’art. 2 del dlgs n. 81/2015 si applica anche in presenza di Partita Iva (per esempio, professionisti senza cassa e albo)? Se sì, quando? (nel caso di mono-committenza, per esempio, o sempre)?
R. La disposizione dice che si applica a tutte le forme di collaborazione. Noi abbiamo forme di collaborazione previste dall’articolo 2222 o altre forme che possono avere elementi di continuatività nello svolgimento della stessa. Non c’è nessuna differenza tra lavoratori con partita Iva o meno: se io utilizzo un professionista non iscritto in albo (perché altrimenti ci sarebbe l’esclusione esplicitamente prevista dal comma 2 articolo 2 del dlgs 81) per una prestazione che esce dall’occasionalità e presenta i caratteri della subordinazione, questa potrà essere ricondotta alla disciplina del lavoro dipendente. La monocommittenza è un indice abbastanza significativo del fatto che quel lavoratore non sia un genuino co.co.co., cioè che non ha margini di autonomia; ma è solo un indice: la presunzione non può validamente operare al i fuori di quelli che sono gli altri parametri. I paletti fondamentali sono la personalità, la continuatività e poi l’etero-organizzazione anche nelle forme del coordinamento in relazione al tempo e al luogo dello svolgimento della prestazione lavorativa.
D. Ai fini della qualificazione delle nuove collaborazioni, i requisiti sembrerebbero essere sostanzialmente tre, ossia «prestazioni esclusivamente «personali», «continuative»,
«le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro». Ritiene corretta questa impostazione? Quando può dirsi ricorrente il requisito «esclusivamente personale»? E quando può dirsi ricorrente quello di «prestazioni continuative»?
R. Come accennavo prima, gli elementi devono concorrere, tutti. Non è possibile che siano letti in modo disgiuntivo. Tutti gli elementi individuati dall’articolo 2 comma 1 devono ricorrere perché si debba applicare alla co.co.co la disciplina del lavoro subordinato.
La personalità della prestazione significa che il lavoratore svolge il suo lavoro in modo autonomo senza l’ausilio di altri soggetti: quindi questo presupposto non opera se il soggetto opera come realtà d’impresa. Se questo collaboratore ha dei dipendenti, difficilmente può sussistere questo requisito, a meno che si riesca a dimostrare la fittizietà di questa impresa. L’elemento della continuità è forse quello un po’ più complicato perché la continuità va letta, al contrario, come non occasionalità, non eccezionalità della singola prestazione. Sostanzialmente le prestazioni sono continuative quando non si possono esaurire nell’attività svolta in un’unica soluzione, o in un’unica giornata. Questo significa che ci vorrà un certo arco temporale di osservazione per capire la ripetitività di questa prestazione. I paletti dal punto di vista quantitativo oggi è difficile porli. Non deve essere comunque una prestazione spot, una prestazione del tutto occasionale.