Ci mancava solo il test nucleare della Corea del Nord (vedere il box in pagina). Per fare andare giù le borse nel giorno della Befana sarebbero stati più che sufficienti i continui timori sulla tenuta dell’economia cinese con la nuova svalutazione dello yuan e l’ennesimo crollo dei prezzi del petrolio.

E così Piazza Affari ha subito archiviato il rimbalzo di martedì per chiudere ieri in calo del 2,7%. E se due giorni fa è stata la migliore d’Europa, ieri è stata la peggiore (Francoforte ha ceduto lo 0,9%, Parigi l’1,3%). Come ha osservato Didier Duret, responsabile degli investimenti del wealth management di Abn Amro, «la Cina è sicuramente di nuovo al centro dell’attenzione. Direi che si tratta di un eco di quel che è accaduto lo scorso mese di agosto. Tutti si domandano che cosa significhi per il resto del mondo il rallentamento dell’attività industriale cinese e questo rende nervosi gli investitori. Abbiamo bisogno di vedere come le autorità cinesi cercheranno di domare la volatilità questa volta». A proposito dell’agosto scorso, all’epoca il Ftse Mib si assestò fra 20.100-20.200 punti mentre ieri ha chiuso a quota 20.422, Manca poco, quindi. Ma, come ha detto un trader, «una volta raggiunti questi livelli bisognerà in ogni caso rimanere vigili e prestare attenzione, perché la spinta rialzista non è scontata».

La crisi dello scorso agosto ha avuto come conseguenza il rinvio del rialzo dei tassi d’interesse programmato per settembre dalla Federal Reserve.

La storia potrebbe ripetersi anche stavolta. Con la differenza che la numero uno della Fed, Janet Yellen, dopo il rialzo del mese scorso ha detto che non c’è un «tracciato prestabilito» per i successivi aumenti del costo del denaro. Tutto si baserà sui dati macro che verranno esaminati con attenzione volta per volta. E ieri il vice della Yellen, Stanley Fischer, ha definito «approssimative» le stime che circolano, secondo cui la banca centrale Usa effettuerà quattro rialzi dei tassi nel 2016. Mentre l’indicazione più significativa emersa dalla pubblicazione delle minute della riunione della Fed di dicembre, in cui è stato deciso l’aumento dei tassi, riguarda «la significativa preoccupazione» per l’inflazione ancora lontana dall’obiettivo del 2%. 

Dal che si deduce che a gennaio non verranno alzati i tassi, e forse nemmeno a marzo. In Eurolandia, intanto, crescono i dubbi sull’efficacia del Qe. Così ieri Peter Praet, membro dell’esecutivo dell’Eurotower, ha detto che non c’è un piano B sugli stimoli all’economia per fare risalire l’inflazione in Eurolandia, ora ferma allo 0,2%. «Se stampi moneta», ha spiegato, «l’inflazione sale sempre. Ma se i prezzi del petrolio e delle materie prime crollano è più difficile far aumentare l’inflazione». Praet ha detto di ritenere che «l’attuale politica continuerà almeno fino al 2017 e anche oltre, se necessario. Senza queste misure della Bce saremmo entrati i depressione, ne sono certo. La Bce ha fatto la sua parte, ma la politica monetaria non può risolvere tutti i problemi». Intanto l’indice Pmi composito di Eurolandia, elaborato da Markit, a dicembre è salito a 54,3 punti dai 54,2 di novembre, mentre quello relativo al settore dei servizi è risultato pari a 54,2 punti, in linea con il mese precedente. Il dato sul Pmi servizi della Francia si è però attestato sotto quota 50, segno che l’attività è in contrazione, a 49,8 punti dai 51 di novembre. Quello della Germania è risultato pari a 56 rispetto ai 55,6 di novembre, e quello dell’Italia a 55,3 punti, in rialzo dai 53,3 del mese precedente. L’economia dell’Eurozona inizia il 2016 «da una posizione forte e tale da potersi godere un anno di solida espansione. A fine 2015, la crescita dell’attività ha continuato ad aumentare, con un rialzo del Pmi che ha chiuso il più forte trimestre in quattro anni e mezzo», ha sottolineato Chris Williamson, capo economista di Markit, puntualizzando come sia «particolarmente incoraggiante assistere all’aumento delle assunzioni da parte delle aziende. Una tale tendenza suggerisce che le stesse si stanno preparando alla maggiore domanda per il prossimo anno rafforzando le loro capacità produttive». Tuttavia, nonostante tali fattori positivi, i dati dell’indagine del terzo trimestre indicano una crescita modesta del pil dello 0,4%, che vorrebbe dire per l’Eurozona una aumento dell’1,5% per l’intero 2015. «Considerato il fatto che abbiamo assistito a quasi un anno di Qe, sorge la preoccupazione che tale politica economica stia in qualche modo dando prova di essere inefficace», ha avvertito Williamson. «Dando uno sguardo più attento ai numeri, le preoccupazioni riguardano principalmente la Francia. Germania, Italia, Spagna e Irlanda sono tutte in un felice stato di forte espansione, mentre Parigi sta ancora una volta dando segni di stallo. Per poter sostenere un forte andamento di crescita annuale dell’intera regione, è necessaria una ripresa della Francia». Sempre sul fronte macroeconomico, a novembre l’indice dei prezzi alla produzione industriale nell’area euro è diminuito dello 0,3% su base mensile e del 3,2% rispetto a un anno fa. Ennesimo segnale che non si vede all’orizzonte un aumento dell’inflazione.

Guardando a Piazza Affari, da segnalare che tra le blue chip ha tenuto botta solo Ferrari  (+0,02%), mentreFca  ha lasciato sul campo il 5,2%, finendo sotto gli 8 euro a 7,93. Pesanti le banche: Banco Popolare -4,3%, Mps  -3,6%, Bper -4,4%, Bpm  -3,9%, Intesa Sanpaolo  -2,7%, Mediobanca  -2,5%, Ubi -3,5% e Unicredit  -4,1%. Tra i titoli del lusso, penalizzati dalle crisi in Cina e Arabia Saudita, giù soprattuttoSalvatore Ferragamo  (-2,8%) e Ynap (-2,7%). (riproduzione riservata)