di Giuliano Castagneto
Tempesta perfetta? L’espressione, oltre che abusata, comincia anche a essere inadatta a descrivere quello che forse è il peggior gennaio di sempre per le borse di tutto il mondo. Sicuramente lo è per Wall Street, come calcola Howard Silverblatt, l’uomo che tiene traccia della performance del Dow, e del S&P 500.
Sarebbe il caso di parlare di una tempesta totale, che sta investendo praticamente tutte le asset class e tutte le aree geografiche. Dal Giappone alla Cina, dall’Europa fino agli Stati Uniti, è stata una sola la parola in uso tra gli operatori: vendere. A cominciare dalle azioni. Scorrere i dati di chiusura dei listini mondiali (si veda tabella in pagina) fa venire i brividi. I ribassi in Europa sono stati nell’ordine del 3%, Wall Street a metà seduta viaggiava sugli stessi ritmi. Ma oltre alle azioni sono state colpite molte altre asset class, dai bond alle valute sino alle commodity.
Ieri il petrolio Wti è sceso sotto i 27 dollari dopo che il Fmi martedì ha ridotto le stime sulla crescita globale al 3,4 dal 3,6%, e soprattutto quelle sulla crescita della Cina, al 6,3% per il 2016 e al 6% per il 2017, dopo che il governo cinese ha già ufficializzato una crescita sotto il 7%, da Pechino considerata cruciale, al 6,9%, il più basso da 25 anni. E un greggio superscontato è una pessima notizia non solo per i gruppi attivi nell’estrazione, ma anche per le banche esposte nei loro confronti. È quanto sta succedendo Oltreoceano.
Citicorp, Wells Fargo e Bank of America hanno sottoscritto in abbondanza i bond emessi dalle compagnie che producono petrolio e gas da scisto, le quali a questi livelli di prezzo cominciano ad avere difficoltà a far fronte ai loro impegni finanziari. Così ieri Citicorp è arrivata a perdere il 4,6% a Wall Street, e peggio ancora ha fatto Bank of America con un -5,8%, mentre Wells Fargo, anch’essa molto esposta ai nuovi produttori di petrolio americani, ha limitato i danni perdendo solo il 2,7%. Ma il greggio a prezzi di saldo vuol dire anche minore capacità di spesa per vaste aree del mondo, come la Russia, che ha stretto molto i rapporti con la Cina proprio per aumentare le vendite di gas, il Brasile e i Paesi del Medioriente. Tra l’altro, il crollo delle entrate per i Paesi produttori sta facendo sì che i rispettivi fondi sovrani comincino a liquidare gli strumenti finanziari più rischiosi, sia per fare cassa sia per limitare i rischi di perdite sui portafogli che metterebbero sotto ulteriore pressione le finanze pubbliche, in alcuni casi, come quello dell’Arabia Saudita, già sotto considerevole stress.
Queste vendite si vanno ad aggiungere a un già copioso flusso di riscatti dai normali fondi di investimento.
L’uscita dai fondi azionari ha toccato, stando agli ultimi dati di Bank of America, quota 21 miliardi di dollari a livello mondiale nella sola settimana che va dal 7 al 13 gennaio. Si tratta, è vero, soltanto dello 0,3% delle masse gestite totali, ma è anche il deflusso più forte delle ultime 18 settimane, quattro mesi e mezzo. Insomma livelli che non si vedevano dalla tempesta delle borse cinesi della scorsa estate. E infatti il grafico in pagina mostra che l’ondata di vendite a Wall Street è peggiore di quella abbattutasi sul parterre ad agosto. E una simile massa di riscatti non può non ripercuotersi sulle borse, visto che i gestori hanno improvvisamente necessità di fare cassa per farvi fronte. Ma che cosa ha scatenato una tale corsa alle vendite sui mercati? «In realtà non c’è alcuna vera notizia sui fondamentali economici. Tutti i fattori che stanno pesando sui listini erano già noti da tempo», commenta Luca Trabattoni, responsabile della distribuzione in Italia dei prodotti di Union bancaire Privée, Si tratta in realtà di un enorme aumento dell’avversione al rischio. E lo dimostra quello che è accaduto a Piazza Affari, molto più penalizzata degli altri listini continentali per il forte peso che ha sull’indice il settore bancario. Spiega un trader di una sim milanese «Milano paga il fatto che gli unici nomi a venir fuori della richiesta di informazioni avanzata lo scorso 6 gennaio dalla Bce sono quelli di sei banche italiane». Ma anche in questo caso la richiesta della Bce non rappresentava nulla di sostanzialmente nuovo rispetto a quanto già fatto in precedenza dalla Vigilanza Unica. E d’altra parte che un bond del Monte dei Paschi con scadenza a quattro mesi sia stato ieri scambiato a uno sconto superiore al 30% (poi ridottosi a circa il 20%), non può essere giustificato dai problemi della banca senese, bensì da un attacco di isteria.
Analogamente, l’allargamento dello spread tra Btp e Bund fino a quota 120 punti alimentato anche da timori di tenuta dell’Eurozona, poi ridottosi a 117 nel prosieguo della seduta, e in parallelo l’ulteriore riduzione dei rendimenti sui titoli a breve del debito pubblico tedesco, adesso negativi circa lo 0,4%, testimonia l’enorme nervosismo che regna nelle sale cambi.
Per questo oggi i mercati si attendono un segnale forte da Mario Draghi alla conferenza stampa dopo l’odierna riunione del Direttivo (si veda articolo a pag. 6). In un contesto globale in cui l’incertezza e l’ansia regnano incontrastate, ancora una volta le banche centrali sono chiamate a dare una direzione precisa alle aspettative. E quella data lo scorso dicembre dalla Fed, con l’aumento di 25 centesimi dei tassi ufficiali, non sembra essere stata quella più appropriata per l’attuale scenario macroeconomico. L’Eurotower oggi dovrà, per la sua parte, correggere una sempre più diffusa sensazione di abbandono da parte di mercati, che forse hanno ancora bisogno di essere sostenuti. (riproduzione riservata)