di Lucio Sironi
Se fosse per lo Stato, povero risparmio. La riduzione degli incentivi fiscali ai fondi previdenziali di base e integrativi conferma che la situazione critica delle finanze italiane spinge l’Italia a lavorare di forbice anche su quelle facilitazioni minimali che in passato hanno permesso al Paese di recuperare ritardi accumulati rispetto al panorama internazionale. Nel caso, la necessità di affermare una previdenza integrativa in un Paese dove questa esigenza era molto meno avvertita rispetto ai maggiori d’Europa ha richiesto di assegnare qualche vantaggio a questo tipo di investimenti a lungo termine. Alcuni di questi benefici riguardano le plusvalenze ottenute da tali strumenti, ma ora per poterli conservare i fondi dovranno investire solo in alcuni asset infrastrutturali di interesse nazionale, riconosciuti come tali dal Governo di turno. Sarà interessante vedere, da qui in avanti, quali grandi opere finiranno nella lista di quelle gradite allo Stato e quindi meritevoli di mantenere l’incentivo che fu.
Peccato, perché finora il sistema aveva dato qualche risultato, pur rimanendo assai ampio il divario tra la copertura previdenziale necessaria alle nuove generazioni di lavoratori per contare, prima o poi, su un trattamento pensionistico all’altezza, vale a dire non troppo ridotto rispetto al reddito da lavoro. Tanto più che la propensione al risparmio è cresciuta molto in questi ultimi anni, man mano che la crisi ha stretto la morsa sugli italiani, riducendone entrate e consumi.
Inoltre uno degli aiuti più validi offerti all’industria del risparmio gestito per affermarsi nel 2014 è giunto dall’accanimento fiscale esercitato dagli ultimi governi sul patrimonio immobiliare, sul quale di fatto grava un’imposta stabile e indipendente dal reddito prodotto da quel bene. La fuga dall’investimento nel mattone ha portato linfa all’investimento finanziario, ma ha paralizzato gli svariati comparti legati all’edilizia. Buona parte della frenata nazionale si spiega in questo modo. Si tornerà indietro? Per ora segnali non se ne vedono. Anzi, se davvero dovesse prendere corpo l’ipotizzata revisione degli estimi catastali sulla base di modelli matematici, a cui sta lavorando l’Agenzia delle Entrate, che non si appoggiano a valori di mercato ma a prezzi teorici, c’è da temere una ulteriore, deleteria stretta che darebbe il colpo di grazia al settore e farebbe passare del tutto la voglia agli italiani di detenere case.
Ma se il Btp a cinque anni è arrivato a rendere l’1%, se i bond considerati più sicuri spesso prevedono addirittura rendimenti negativi e dal mattone conviene scappare, cosa resta all’investitore? Ci sono appunto questi interrogativi alla base delle previsioni ancora favorevoli all’industria del risparmio, reduce da un anno superlativo in termini di raccolta, soprattutto attraverso i fondi comuni, ma ora in condizione di affrontare un nuovo anno ricco di soddisfazioni. Vero che i numeri del 2014 probabilmente sono stati gonfiati dal massiccio trasferimento, messo in atto da banche, sim, società di gestione, dal risparmio amministrato verso il gestito, soprattutto di natura obbligazionaria. Ma in quest’ambito c’è ancora molto da fare. Inoltre, sul fronte bancario, cominciano ad andare in scadenza numerosi bond emessi dagli istituti negli ultimi anni, quando era più pressante per loro l’esigenza di ripristinare gli equilibri patrimoniali. Ora per fortuna le aziende di credito hanno la possibilità di ricorrere a liquidità a buon mercato attraverso nuovi canali come le operazioni Tltro promosse dalla Bce. Si libera insomma per le banche un serbatoio di risparmio aggiuntivo da cercare di dirigere verso fondi, polizze e affini. Una prospettiva interessante.