L’attività di polizia svolta per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica non può ritenersi per sua natura attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., in quanto essa si configura come compito indefettibile imposto allo Stato e, quindi, attività assolutamente doverosa e priva di intrinseca attitudine lesiva, siccome esercitata in difesa di beni e interessi dell’intera collettività e volta ad opporsi, dunque, alle potenziali offese che possano essere ad essi inferte da agenti esterni.
Tale attività può, tuttavia, ricondursi nell’ambito della fattispecie di cui al citato art. 2050 c.c. per la natura dei mezzi adoperati; ove, però, si tratti di armi e di altri mezzi di coazione di pari pericolosità, ai fini della sussistenza della responsabilità ex art. 2050 c.c. occorre riscontrare – in base ad un giudizio di merito non implicante un sindacato sulle scelte rimesse alla discrezionalità amministrativa, ma che attinge ai suoi limiti esterni – l’inoperatività della scriminante di cui all’art. 53 c.p. e ciò, segnatamente, sia in ragione di un uso imperito o imprudente degli anzidetti mezzi pericolosi ovvero del loro oggettivo carattere di anormalità ed eccedenza e, dunque, di sproporzionalità evidente rispetto alla situazione contingente.
Ai fini del riparto dell’onere probatorio, spetta al soggetto danneggiato, che invoca la responsabilità della p.a. per la intrinseca pericolosità dei mezzi effettivamente adoperati (armi o altri mezzi di coazione del pari pericolosi) nell’attività di polizia rivolta alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica, fornire la dimostrazione di quelle concrete e oggettive condizioni atte a connotare il fatto come illecito, in quanto antigiuridico (oltre a dover fornire la dimostrazione del nesso eziologico tra la pericolosità dei mezzi adoperati ed il danno patito); incomberà, invece, alla p.a. la prova di aver adottato, in ogni caso, tutte le misure idonee a prevenire il danno.
Cassazione civile sez. III, 10/10/2014 n. 21426