È difficile commentare il decreto «Cresci Italia» o «liberalizzazioni», che dir si voglia.
Fino a ieri, tutti ne parlavano ma nessuno lo aveva ancora visto. Un provvedimento nato unicamente dalla dichiarata volontà dei «professori» di dare nuovo impulso all’economia; «un pacchetto di riforme strutturali per la crescita – come si leggeva nel comunicato stampa di venerdì 20 gennaio, che poi proseguiva – Le riforme mirano a rimuovere due grandi vincoli che hanno compresso per decenni il potenziale di crescita dell’Italia: l’insufficiente concorrenza dei mercati e l’inadeguatezza delle infrastrutture».
Il comunicato stampa continuava illustrando quali sono i principi che hanno ispirato il legislatore.
«Il primo pilastro su cui poggia l’intera struttura del decreto, è la crescita. I provvedimenti che compongono «Cresci Italia» dovrebbero consentire, nel breve periodo, di traghettare l’economia nazionale fuori dalla spirale recessiva e possibilmente, nel medio/lungo periodo, di allinearla ai ritmi di crescita dei partner europei e internazionali
Il secondo pilastro, quello dell’equità, è complementare rispetto al primo. «Cresci Italia» dà spazio alla concorrenzialità e al merito. L’apertura al mercato, incidendo in modo diretto sulle politiche aziendali delle imprese (quelle di grandi dimensioni, ma anche quelle piccole) è in grado di determinare una sensibile riduzione dei prezzi, con vantaggi evidenti per i consumatori. A tutela dei consumatori sono previste anche misure che incentivano la trasparenza e la semplificazione. È il caso, per esempio, dei nuovi obblighi in tema di assicurazioni Rc auto». Questo e molto altro abbiamo potuto leggere nel comunicato stampa ancora visionabile sul sito della presidenza del consiglio. Interessante, ora che il decreto è stato finalmente pubblicato, il confronto tra i contenuti del comunicato stampa e il testo definitivo del decreto stesso. Cioè, come le intenzioni iniziali, nei giorni successivi alla «presunta» approvazione, si siano adattate alle pressioni dei vari ministri.
Noi abbiamo ragione di ritenere che gli addetti stampa di Palazzo Chigi abbiano lavorato sul primo testo che, infatti, prevedeva quanto troviamo oggi nel comunicato stampa e si siano persi per strada le modifiche intervenute; che la mano destra non sappia quello che fa la sinistra; che la mano che ha scritto il comunicato stampa abbia letto un documento diverso da quello che alcuni giornalisti hanno anticipato e che tutti noi abbiamo letto sulle pagine dei quotidiani.
Ed è anche curioso che fino a martedì, a metà pomeriggio, nessun parlamentare avesse a disposizione il testo integrale: sempre e solo ipotesi. Evidentemente, dopo l’annuncio della firma qualcosa non è andato nel verso giusto e si è dovuto fare qualche aggiustamento al testo originale.
In queste condizioni non esisteva la benché minima possibilità di intervenire o fare pressioni per modificare il testo che è circolato. Non ci sono riusciti altri potentati; forse non ci è riuscita nemmeno l’Ania. In questa prima fase non si poteva fare di più.
Ora inizia il nuovo percorso sul quale cercheremo di intervenire. Dopo la firma del presidente della repubblica, il decreto – entro pochi giorni – inizierà il suo iter in una delle due aule parlamentari. Sarà in questa seconda e decisiva fase, quella della discussione, della presentazione degli emendamenti e delle votazioni, che dovremo mettere in campo tutte le nostre conoscenze, attivare tutti i canali per cercare di introdurre, attraverso emendamenti, quelle modifiche che vadano nel senso di una vera liberalizzazione ma, soprattutto, che non si tratti di liberalizzazioni che danneggiano gli intermediari e non favoriscano la concorrenza.
Siamo una delle poche categorie che non è contraria alle liberalizzazioni (e lo abbiamo ribadito nel telegramma che il XLV Congresso ha voluto inviare alle forze politiche), che non è scesa in piazza per difendere privilegi, e continueremo a farlo: ma a condizione che siano liberalizzazioni vere e che non significhino unicamente un aumento dei costi per gli intermediari e nessun vantaggio per gli utenti.
Immaginare che un intermediario debba presentare tre diversi preventivi sarebbe come chiedere a un fruttivendolo di informare il suo cliente che le sue pere costano 1 euro al chilo ma che, nei negozi accanto, le può trovare a 0,95 o 1,05 euro al chilo. Ma senza per questo poter garantire al proprio cliente che si stia parlando delle stesse pere. Perché le pere, come le polizza auto, non sono tutte uguali e, come tutti ben sappiamo, possono differenziarsi non poco. Se è vero, come è vero, che il preventivatore dell’Isvap non ha funzionato e non ha introdotto elementi di concorrenza nel mercato, come può pensare il legislatore che sia un intermediario ad accettare questa imposizione, questa violenza? Perché è violenza, anzi una moderna interpretazione dello schiavismo, obbligare un intermediario a lavorare senza essere remunerato.
Anche su altri elementi di questo decreto avremmo molto da dire.
Per esempio l’introduzione della famosa «scatola nera».
Strumento che avrebbe anche una sua ragione di esistere e potrebbe contribuire, in parte, a dare soluzione ad alcune problematiche: quella delle truffe per esempio, o essere strumento per individuare i veicoli circolanti sprovvisti di copertura assicurativa; ed ancora, essere valido strumento per definire le responsabilità nell’accadimento del sinistro.
Ma una cosa non è chiara: chi paga?
Se questo strumento, oramai presente sul mercato da almeno 7/8 anni, non ha avuto un grande diffusione, è perché è stato utilizzato dalle compagnie come vincolo per gli assicurati, prevedendo dei costi di disinstallazione dell’apparecchiatura tali da scoraggiare la migrazione dei clienti verso compagnie che praticano condizioni contrattuali maggiormente convenienti. Proprio quello che, con il decreto liberalizzazioni, si vuole contrastare. Per non parlare poi della cosiddetta «ispezione del veicolo». Qual è l’ente che stabilisce la caratteristiche tecniche minime che danno accesso alla scontistica? E chi visiona l’autoveicolo? L’intermediario? Con quali competenze tecniche specifiche?
Più ombre che luci, in questo decreto.
In questo momento ci sembra più che mai opportuno chiamare tutti i colleghi a fare la loro parte: attraverso la costruzione di quelle relazioni politiche che, in questi ultimi anni lo Sna non ha saputo coltivare, individuando tra le loro conoscenze quei Parlamentari che, adeguatamente informati, potrebbero essere portatori nelle aule parlamentari delle nostre istanze. È tempo di abbandonare il «benaltrismo», rimboccarsi le maniche e mettersi a disposizione della categoria.